Dagli spaghettifresser al Master senza back [di Raffaele Deidda]

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A dicembre ricorre il 60° anniversario dei Patti bilaterali, firmati nel 1955 tra i governi italiano e tedesco per l’invio di manodopera italiana in Germania. L’Anwerbevertrag, è l’atto ufficiale di nascita del fenomeno migratorio. Molti italiani, specie dal Sud, raggiunsero la Germania che aveva bisogno di manodopera nelle industrie della Renania, della Vestfalia, del Baden-Württemberg, della Baviera.

Negli anni ‘50 –’60 in Germania non mancavano il lavoro e neppure i problemi. Gli italiani vivevano spesso in baracche, avevano difficoltà con la lingua, soffrivano di nostalgia e i tedeschi non facevano molto per integrarli. L’appellativo era Spaghettifresser (mangiaspaghetti) e prevaleva il concetto del lavoratore “ospite” che, una volta dato il suo contributo all’economia tedesca, sarebbe dovuto rientrare. Per il Governo italiano l’accordo del 1955 doveva ridare fiato alla nostra economia con le rimesse degli emigrati.

Il Trattato di Roma del 1957 (istituì la Comunità economica europea), sancì l’eliminazione fra gli stati membri degli ostacoli alla circolazione che fu libera per i lavoratori permanenti e per quelli stagionali. Per i tedeschi fu abolita la priorità di assunzione. Oggi risiedono in Germania circa 700mila italiani occupati soprattutto nell’edilizia, nell’industria, nella gastronomia, nel commercio.

Il Rapporto Italiani nel Mondo 2015 della Fondazione Migrantes evidenzia che gli italiani all’estero sono 4,5 milioni (8% della popolazione italiana) e che nel 2014 sono emigrati più di 101.000 italiani. I dati sono riferiti agli iscritti all’AIRE (Anagrafe italiani residenti all’estero), riduttivi rispetto al fenomeno. Coloro che partono sono “lavoratori più o meno formati e più o meno specializzati, talenti altamente qualificati” oltre a studenti, nuclei familiari e anziani, il 54% in Europa e il 40% in America. Fra le motivazioni dei giovani che lasciano l’Italia: “La voglia di arricchirsi culturalmente, di acquisire maggiori competenze linguistiche o di confrontarsi con sistemi formativi differenti, ma anche di realizzare all’estero il proprio progetto di vita o professionale”.

Diverse rispetto agli emigrati italiani in Germania di sessant’anni fa ma con la stessa ragione di fondo: la mancanza di lavoro, che colpisce soprattutto i giovani scolarizzati del Sud. Lasciano l’Italia interessata da “una recessione che da ormai troppo tempo incide sulla fiducia nel futuro dell’intero Paese”. E perchè attratti dai livelli retributivi mensili medi (2150 euro all’estero/1.300 in Italia). Da qui il fenomeno della “fuga di cervelli”, dei laureati più brillanti, conosciuto ai giovani sardi che lasciano la Sardegna per la difficoltà di un futuro. Specie per quelli che hanno usufruito del Master and Back che finanziava un’esperienza di alta formazione per acquisire competenze specialistiche da mettere a disposizione una volta tornati.

Il 60% non sono tornati perchè non c’è lavoro malgrado la Regione Sardegna abbia speso  circa 200 milioni di euro per finanziare il programma che doveva creare occupazione stabile e qualificata per 4.000 giovani. Chi ha preferito rinunciare al rientro non vedeva elementi economici d’interesse né impieghi coerenti col profilo professionale raggiunto.

La Regione Sardegna, per bocca dell ’assessore regionale del Lavoro, ha comunicato l’intenzione di riproporre il programma, non prima di un’analisi degli aspetti negativi del passato. E’ opportuno e urgente creare infatti le condizioni per rendere il Master and back uno strumento che risponda all’obiettivo di mettere a disposizione del territorio le competenze e le professionalità acquisite dai giovani sardi.

Non è più tempo di “Spaghettifresser”. E’ il tempo di consentire, con i fatti, ai contesti produttivi della Sardegna di crescere migliorando  qualità e competitività e avvalendosi di professionalità formatesi in prestigiose strutture. E’ tempo che in Sardegna venga creata occupazione stabile e qualificata. E’ tempo di anteporre il merito.

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