Fascismo. Così fallì il tentativo di liberare Gramsci [di Marco Roncalli]
Avvenire 1/11/2015. L’ipotesi dello scambio di detenuti o del suo invio in Urss sfumò nonostante la mediazione della Santa Sede. Un saggio di Giorgio Fabre. “Antonio mi ha chiesto notizie su come sta andando la sua faccenda, per quanto si riferisce alla questione di uno scambio, oppure del suo invio in Urss e a questo proposito ha aggiunto che attualmente non ritiene che sia possibile fare nulla tramite il Vaticano. Questa è ora la sua opinione in proposito». Così Tanja Schucht in una lettera alla sorella Julja, moglie di Gramsci, nel marzo 1934, riferendole la nuova presa d’atto del marito, da pochi mesi in una clinica a Formia. A quella data il “capo” – come si diceva – del Partito comunista d’Italia, prigioniero del fascismo da sette anni (per quasi un anno e mezzo a Milano, poi, dopo il “Processone” e la condanna, a Turi, in Puglia), ammetteva per la prima volta di non aver più fiducia in quello scambio di detenuti perseguito sin dal 1927, all’indomani dell’arresto. Il 26 settembre di quell’anno infatti da parte sovietica (leggasi Bucharin) era giunta al Vaticano (attraverso l’allora nunzio a Berlino Eugenio Pacelli), la richiesta di una mediazione con lo Stato italiano (in ultima istanza con Mussolini) per uno scambio con «preti cattolici arrestati da noi». Contemporaneamente il rappresentante del partito presso l’esecutivo del Comintern, sondava Mosca con lo stesso intento e maggior cautela. Nei fatti non solo sarebbe fallito quel primo tentativo, ma anche tutti i successivi. Cominciando da quelli che coinvolsero prelati come il segretario di Stato Gasparri (che lasciò trattare la pratica dalla sezione della Segreteria di Stato incaricata degli affari ordinari e non dei rapporti con gli esteri guidata da monsignor Pizzardo) o come il gesuita Tacchi Venturi (l’uomo di collegamento Sino al «tentativo grande» nell’Anno Santo 1933 – al quale Gramsci guardava con interesse non avendo ancora rinunciato a quella considerazione per la Chiesa rilevante nel suo pensiero – che, nella sua mente, si delineava attraverso una complessa operazione: con la parte prevalente fissata su una nuova trattativa attraverso mediatori sovietici, ma, per l’altra parte, affidata a una richiesta di «libertà condizionale» attivata alla base. Operazione pure senza successo. Alla detenzione di Gramsci, ai ripetuti tentativi di liberarlo (reali o un po’ finti) è dedicato Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato, di Giorgio Fabre (Sellerio, pp. 529, euro 24). Frutto di anni di scandaglio d’archivi, l’opera descrive fatti e avanza interpretazioni – ora convincenti, ora allo stadio di congetture- provando a dipanare una complicata matassa. Una storia costellata di errori, ingenuità (anche di Gramsci), contraddizioni e ambiguità (anche da parte della Santa Sede), silenzi e omissioni (anche tra i più vicini compagni di partito), e persino strane coincidenze, che attendono risposte da archivi ancora inaccessibili. Fabre, prima di sostare su ogni dettaglio, offre al lettore squarci sul contesto del periodo (si tratti della situazione politica italiana alla vigilia e dopo il Concordato del ’29, o di quella religiosa nell’impero dei Soviet), delineando gli interlocutori coinvolti, ma senza farci perdere di vista il dinamismo intellettuale dell’autore dei Quaderni e delle Lettere, con il suo mondo da indicare oltre le sbarre. Non poche le nuove fonti valorizzate, a partire da tutti i documenti donati da Gorbaciov a Natta nel 1988 (testimone Giorgio Napolitano): forse più interessanti – riconosce Fabre – di quelli ottenuti da Andreotti nei Sacri Non è tutto. Tutt’altro che trascurabili appaiono infatti le indicazioni per approfondire alcune relazioni: da quelle paradossalmente piene di fiducia, per esempio con Mariano d’Amelio dal ’23 primo presidente della Corte di Cassazione, ligio al fascismo, a quelle conflittuali con alcuni compagni di carcere come Athos Lisa o Bruno Tosin. Se è vero che fare la storia di Gramsci, significa fare anche quella del suo partito nell’Italia sotto la dittatura e durante la Repubblica, Fabre qui – oltre lo slogan cadenzato del Pci: “Gramsci! Togliatti! Longo! Berlinguer!” – getta luce sui rapporti con Mosca, o le conseguenze della solidarietà internazionale, collocando le sue tessere in un vecchio mosaico. Ancora da completare. |