Ma l’autodeterminazione è compatibile con la democrazia? [di Stefano Puddu Crespellani]
Da circa una diecina d’anni, la Catalogna è, di fatto, uno dei laboratori più interessanti e controversi in fatto di esperimenti con la democrazia, nonché con i suoi limiti. Le cose che accadono in questo territorio di circa 7,5 milioni di abitanti sono di una portata davvero insolita, che merita di essere conosciuta e seguita. In gioco c’è la difesa del diritto dei popoli a determinare il proprio destino, o il mantenimento dei valori della sacra unità dello stato. La giornata del 9 novembre, è stata storica: il Parlamento uscito dalle recenti elezioni del 27 settembre scorso ha approvato per maggioranza assoluta (72 voti contro 63, nessun astenuto) un documento in cui si dichiara l’inizio del processo per la costituzione di una repubblica catalana indipendente. I parlamentari dei due gruppi politici favorevoli all’indipendenza (Junts pel sí —Insieme per il sì— e CUP — Candidatura di Unità Ppopolare) considerano che questo sia il mandato emerso dal voto e si dichiarano pronti a disobbedire le leggi dello stato, qualora si pretenda limitare o contraddire la volontà della maggioranza legalmente eletta. Lo strappo, insomma, è servito. L’indipendentismo catalano lancia la sfida democratica con la massima chiarezza: una legalità nascente vuole affrancarsi dalla legalità vigente; contro l’ordine costituito, la volontà costituente. Dall’altra parte, la reazione è stata immediata: non solo il capo del governo spagnolo, Mariano Rajoy (PP), ma anche il capo dell’opposizione, Pedro Sánchez (PSOE) sono intervenuti in conferenza stampa, con parole durissime, in difesa dell’ordine costituzionale e della legalità: si parla di colpo di stato, di tradimento democratico. Si annuncia un immediato ricorso al tribunale costituzionale; domani consiglio dei ministri straordinario per dire stop alle “velleità secessioniste”. Il pronunciamento del tribunale si prevede per giovedì. In definitiva, pronunciamenti che non spostano di un millimetro la posizione di chiusura totale rispetto alla richiesta catalana di un margine di autogoverno all’altezza delle propria realtà politica, economica e sociale. Una chiusura che è anche la spiegazione implicita del perché si sia arrivati sino a qui. Per questa “disobbedienza” il presidente Artur Mas è oggi sotto processo, insieme ad altre due ministre catalane. Lo spirito britannico resta insomma assai distante dal carattere essenzialista della Spagna post franchista, dai cui lacci sembra non essere uscita del tutto. Soprattutto, l’idea di democrazia che si basa sull’osservanza letterale delle leggi, e non sul loro spirito, non lascia spazio alcuno al cambiamento democratico; di conseguenza, questo può avvenire soltanto in forma di strappo. I catalani sono conosciuti nel mondo per il loro carattere pattista, a volte perfino eccessivamente astuto e diplomatico. Popolo di navigatori e commercianti, molto più che di guerrieri e conquistatori, sono abituati all’idea che si ottiene di più da un accordo che da uno scontro. Bisogna immaginare quindi a che livello dev’essere arrivata l’esasperazione collettiva per concludere che non rimane altra strada per le proprie aspirazioni nazionali che non sia quella di affrancarsi dal controllo dello stato, cioè andare allo scontro. L’ipotesi federalista è naufragata per assenza di interlocutori. Ora che l’onda secessionista è diventata alta, sorgono voci che cominciano a parlarne, tra i partiti spagnoli, ma sempre a partire dall’idea che l’unità del regno è inviolabile. Sarebbe un aggiustamento tecnico, non un approfondimento dell’idea democratica di autodeterminazione. In questi tempi di globalizzazione, abbiamo già visto che chi muove i fili della realtà è l’economia, e tutto il resto sono idee romantiche che non possiamo più permetterci. Grecia docet. Quello che accade in Catalogna, dunque, è realmente un’eccezione. Entriamo dunque in una fase di enorme incertezza, e questa non dipende soltanto dalle contromisure che adotterà il governo spagnolo, attraverso la giustizia e le forze dell’ordine, fin dove vorranno utilizzarle. Lo stesso fronte catalano dovrà dirimere i propri garbugli, davanti allo scoglio di eleggere un nuovo presidente per questo parlamento costituente. Junts pel Sí, la coalizione che ha vinto le elezioni con 62 deputati, non dispone, da sola, di maggioranza sufficiente per eleggere il proprio candidato, Artur Mas, perché l’opposizione in blocco dispone di 63 seggi. Hanno bisogno dei 10 voti delle CUP, la candidatura dell’indipendentismo rotturista, che in tutta la campagna elettorale ha detto e ripetuto che non avrebbe appoggiato l’elezione di Mas, come simbolo di una concezione neoliberale, oltre che gestore della tappa di tagli ai servizi e in qualche modo complice, sia pur passivo, di una serie di scandali di corruzione che hanno coinvolto il suo partito. Per altro verso, il gran merito che viene riconosciuto a Mas è quello di aver saputo convincere un settore non certo rivoluzionario come quello della piccola imprenditoria industriale e commerciale a seguirlo in un progetto di indipendenza nazionale, con una certa patina socialdemocratica, e questo settore difficilmente seguirebbe ad appoggiare il processo senza la garanzia della sua leadership. Su questo punto sembra che si stia inceppando un meccanismo che finora ha funzionato con imprevedibile efficienza. Entrare in un conflitto aperto con lo stato senza disporre di governo eletto, non favorirà certo le negoziazioni future. La pressione ambientale contro la CUP, accusata di frenare il processo e perfino di fare il gioco della destra spagnola (nei momenti di conflitto si arrivano a dire di tutto) è altissima. Junts pel Sí continua a giocarsi tutto ad una carta, cioè non propone candidati alternativi. Sapremo nelle prossime settimane quali saranno i prossimi passi. Restate attenti, perché le emozioni non mancheranno. |