La rotonda come metafora [di Carlo Crespellani Porcella]

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Che dire della rotatoria? Il diverso scorrere del traffico è sotto l’occhio di noi tutti, quando percorriamo le sempre più frequenti rotonde presenti nelle nostre strade. Un flusso veicolare che risulta continuo e senza fermi al semaforo, senza i tipici stop & go a singhiozzo. L’avvento delle rotonde ha infatti portato una serie di benefici per gli utenti e per le amministrazioni, anche se la loro introduzione massiccia appare frutto di un’azione frequente e ripetitiva delle amministrazioni pubbliche secondo logiche non sempre chiare.

La loro proliferazione si è manifestata certamente sulla scia dei benefici e del costo inizialmente (e potenzialmente) meno oneroso rispetto ad altre opere, ma anche perché ha permesso un incremento dell’immagine delle amministrazioni e favorito in qualche caso appalti facilmente assegnabili a imprese “amiche”.

Come ogni azione l’opportunità di introdurre nuove rotonde va analizzata con attenzione per coglierne i potenziali benefici ma evitando il loro abuso e soprattutto la loro messa in opera nei luoghi sbagliati, con una progettazione errata, in sostituzione di altre tecniche più idonee o con realizzazioni improprie.

Dopo la loro diffusione in Inghilterra anche in Italia sono state adottate a partire da Lecco nel 1989, poi Cattolica, Treviso, Bologna e via le altre città. Certo è che i benefici sono risultati subito evidenti: incidenti ridotti di oltre il 50% (in un anno a Cattolica gli incidenti sono scesi da 1800 a 300), tempi di attesa ridotti del 70% per l’eliminazione dei tempi morti semaforici, minor inquinamento acustico e ambientale.

Una prima questione che caratterizza questa scelta è il “disegno” urbano, che comporta l’eliminazione dell’incrocio e il coinvolgimento di un spazio più ampio, possibile in alcune aree libere ma certo molto meno in centro città. Se l’incrocio “semaforico” non ha infatti necessità di “allargarsi” rimanendo compatto e funzionale anche per i pedoni, la rotonda inevitabilmente consuma spazio urbano perché per essere corretta necessita di adeguati raggi (almeno 20 metri). E il suo centro diventa così semplice spazio, percepibile ma non fruibile, spazio neutro che può solo essere luogo di elementi simbolici o semplici arredi urbani a seconda della sensibilità del progettista, non di rado sostituita da una “trovata” voluta dell’amministratore di turno.

In questa trasformazione, al quadrato dell’incrocio si sostituisce una forma rotonda, ideale per intersezioni che coinvolgono diverse vie (anche per distribuire e poter fare inversione) che lo configurano con un impianto geocentrico, con un centro ideale, irraggiungibile e impalpabile, nel quale compaiono una scultura, una fontana o un albero simbolo (spesso un ulivo), a far riemergere un punto chiave, non più punto di conflitto, bensì punto prospettico percepito dalle vie che confluiscono.

Alcuni fattori hanno determinato il successo delle rotonde. Per esempio le diverse geometrie delle traiettorie veicolari, passate da perpendicolari a tangenti, o la forzata riduzione della velocità. Un altro elemento più “soft” però è necessario perché questo “effetto rotonda” possa dare i suoi risultati. Ognuno di noi sa che entrando in una rotonda deve dare la precedenza e percorrendola deve comunque prestare attenzione a chi entra in modo che i possibili punti di conflitto siano sotto controllo. Appunto una piccola assunzione di responsabilità, distribuita tra tutti gli automobilisti, nessuno escluso, tanto da creare le condizioni per ridurre al minimo i conflitti. E quando ci sono collisioni, queste risultano di norma non di grossa entità.

Ma se questo modello è vero per i flussi veicolari, perché non estrapolarlo e coglierlo come metafora nella vita sociale e nella politica contemporanea? Oggi siamo di fronte ad un cancro che si manifesta nella nostra società e che è legato alla disaffezione dei cittadini per la politica. Effetto evidente è il disertare le urne da parte degli elettori, ma ancor più grave è non interessarsi dei beni pubblici, non partecipare alla vita sociale e alle scelte strategiche o locali.

Questo cancro non può essere sradicato se si lascia la responsabilità alla tecnocrazia, nel nostro caso rappresentata dai soli sistemi tradizionali di governo e gestione dei beni pubblici, dei servizi, dello sviluppo. Gestione che si manifesta attraverso i poteri forti, lobbies, partiti, sindacati e politica di “potere concentrato” che ha il controllo del sistema delle regole di chi passa e chi no, di chi ha diritto e chi non ne ha, quando e come.

L’idea di avere una cultura diffusa in cui ognuno si assume una quota parte di responsabilità ed è capace di gestire la dimensione dei conflitti e delle priorità, ci aiuta a prendere in considerazione che il sistema politico ha bisogno di un nuovo paradigma che metta tutti nelle condizioni di incidere, anche se poco, al flusso dei processi politici. Ciò succede attraverso l’assunzione di scelte e di conseguenti responsabilità diffuse nella parte decisionale finale ma soprattutto a monte dove è necessario un diverso modo di partecipazione, un modello che prevede che a gestire il traffico non sia (sempre) un semaforo (o un vigile) che, anche se efficiente, ha nel suo DNA un concetto di sovra ordine che nei fatti è sostitutivo di un sistema di responsabilità diffusa.

Magari nella politica questa metafora può suggerire che “l’approccio semaforico” assimilabile alla tradizionale democrazia rappresentativa necessiti di un’alternativa o meglio di qualcosa complementare: è la democrazia partecipativa che, con le sue regole e i suoi metodi, costruisce le soluzioni per ridurre la dimensione conflittuale e favorisce l’apporto creativo e costruttivo dei diversi cittadini.

Vengono in mente analogie e contro-analogie. Se un limite delle rotonde è l’impossibilità di garantire le corsie preferenziali per mezzi pubblici e di soccorso, questo limite diventa nei fatti un’opportunità quando trasliamo il concetto nei processi partecipati eliminando alla radice i favoritismi e il clientelismo. A meno che si consideri corsia preferenziale (necessarie per i mezzi che devono avere priorità) l’attenzione alle classi deboli e a chi di norma ha meno voce in capitolo.

Ed ancora,per concludere, osserviamo lo stato psicologico di chi è già entrato nella rotonda: la quasi automatica temerarietà di chi ha la precedenza su tutti, soprattutto nei confronti di coloro che, timorosi e poco intraprendenti come anziani e superprudenti, non osano buttarsi con facilità dentro la mischia della rotonda. Stato psicologico di chi “è già dentro” che fa diventare la precedenza una regola assoluta senza ricordarsi la assunzione di responsabilità che richiede la filosofia della rotonda.

Troppo facile, a questo punto, notare l’analogia del fenomeno con chi opera in politica e che non favorisce il ricambio di chi entra, magari debole, inesperto e timoroso. I cosiddetti veterani che magari continuano a girare nella rotonda oltre uno, due e più giri, senza mai uscire. La rotonda – si è capito – funziona solo in quanto tutti, proprio tutti entrano (quindi partecipano), e perché ognuno esce al momento giusto, almeno nel traffico, non oltre un giro.

One Comment

  1. fra

    Tutto questo perché tu chiami “rotonda” la rotatoria. Se invece la chiamassi con il suo nome di rotatoria, sarebbe più chiaro che il nome implica rotazione o avvicendamento: tutti entrano e tutti, ad un certo punto, escono. Se uno utilizzasse la rotatoria per giraci dentro senza uscirne, non per questo pregiudicherebbe la rotazione/ avvicendamento degli altri, cioè sarebbe privo di effetti verso il flusso degli utenti

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