Cleopatra e il cigno nero: futuro e avvenire [di Silvano Tagliagambe]
Tra gli innumerevoli elementi di riflessione che le tragiche vicende di questi giorni in Sardegna, legate al ciclone Cleopatra e all’alluvione che ne è seguita, propongono alla nostra attenzione ve n’è uno che merita di essere considerato e approfondito a parte. Si tratta della tendenza all’estrapolazione, a pensare il futuro, quello prossimo ma anche quello remoto, sulla base di ciò che è avvenuto in passato, affidandosi a strumenti di previsione che sono il risultato di questo proiezione dell’altro ieri sull’oggi e sul domani. Nei fatti di cronaca odierni questa tendenza si manifesta sotto forma di sopravvalutazione del significato e dell’importanza delle serie storiche degli eventi climatici, che sono sempre più inattendibili, perché il clima sta cambiando in modo vorticoso. Per quanto riguarda proprio la nostra Regione è stato giustamente ricordato come le precipitazioni ogni anno si discostino dalla media, superandola, in una misura che tende a essere del 100% o anche più. Qualsiasi studio dell’uso del suolo dovrebbe, di conseguenza, prendere in considerazione le precipitazioni massime, che possono raggiungere anche punte di 600 mm/giorno e 200-300 mm in un’ora, e non la media della serie storica, ma non lo si fa, non lo si vuole fare, per ingordigia, follia e stupidità. Ciò che si verifica per quanto riguarda il clima è ormai una costante del nostro presente, caratterizzato da cambiamenti in tutti i campi di portata tale da richiedere elaborazioni teoriche e strumenti di valutazione e previsione costruiti guardando all’oggi e al domani, e non più tanto a quello che è accaduto in passato. Questo tema è al centro di un libro provocatorio di qualche anno fa di Nassim Nicholas Taleb, intitolato, non a caso, Il Cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita[1], in cui l’autore pone il problema dell’incapacità di pensare un futuro che non sia il risultato, appunto, di un’estrapolazione del presente, di una proiezione dell’oggi sul domani, che può per questo essere affrontato facendo riferimento agli stessi quadri concettuali imperanti ed egemoni al momento. Se si segue questa strada, infatti, non si può che avere un «apprendere all’indietro», che pensa di potere e dover fare a meno di ogni riferimento all’insolito, al «non prevedibile» in quanto «non estrapolabile» e perciò, per definizione, «non normale». Questa concezione, profondamente impregnata dell’idea di pianificazione, di un domani in qualche modo preordinato, priva il futuro del suo senso di attesa e di imprevedibilità, che in quanto tale può essere avvertita come minaccia, ma è anche speranza e possibilità di mutamento. Essa appare strettamente connessa alla tradizionale concezione lineare della storia, incardinata sull’idea di tempo come Xrόnos, espressione della misurazione meccanica del tempo, che induce a percepire lo scorrere del tempo in una sola direzione, dal passato al futuro e secondo ritmi della vita e scanditi dal succedersi di un «prima» e di un «poi» tutto sommato omogenei. La tradizione classica ci ha però lasciato in eredità altre concezioni del tempo. C’è, innanzi tutto, l’idea di tempo come Kairόs, come esigenza e capacità di cogliere al volo le opportunità che si presentano sulla scena e che sfumano rapidamente, se non le si sa afferrare. Si tratta dunque di un concetto di tempo che presuppone l’abilità di trovare e mantenere la giusta distanza tra pensiero e azione, da una parte, e realtà, dall’altra, perché si possano verificare l’innovazione e la trasformazione. I termini implicati nella relazione devono a tal scopo risultare non troppo vicini, affinché il pensiero e l’azione non siano travolti dal corso degli eventi, dall’effettualità che giunge a maturazione e si compie, ma neppure troppo lontani, per evitare che essi finiscano col perdere il contatto con il «potenziale della situazione», per non uscire dal campo delle possibilità che si offrono e rischiare così di non essere pronti ad afferrarle al volo. Posidippo definisce Kairόs «pandamator», ossia colui che domina su tutto: è sulla punta dei piedi, ha doppie ali, tiene nella mano destra un rasoio, ha i capelli sulla faccia ed è calvo sulla nuca. Queste le caratteristiche che Posidippo individuava nella statua di Lisippo, che traduceva in termini iconografici efficaci l’idea del momento debito che deve essere colto non appena ci si presenti di fronte, pena la sua inafferrabilità, quella stessa inafferrabilità del momento propizio irrimediabilmente trascorso che, nell’iconografia lisippea, si traduce nel KairόV privo dell’appiglio della chioma. Nell’ Etica Nicomachea di Aristotele (1096a 27) KairόV è la declinazione del bene del tempo proprio perché «l’agire deve allora riferirsi al KairόV, al momento opportuno, cioè deve afferrare il tempo debito quando esso viene a maturazione e decidere l’azione». Parlare di «tempo opportuno e debito» significa, riferirsi allo sforzo e all’obiettivo di trarre vantaggio dalle circostanze, dalle occasioni: questa espressione sta cioè a indicare la pazienza di aspettare che la situazione evolva per cogliere al volo gli sviluppi favorevoli, la capacità di trovare tutte le opportunità che possono presentarsi nelle circostanze così come si sviluppano allo scopo di trarne vantaggio. Il termine «KairόV» esprime quindi una nozione di tempo qualitativa, e non prevalentemente quantitativa come XrόnoV, legata alla convinzione che per ogni cosa esista un momento di compiutezza e di pienezza.
Esso indica il momento ottimale per ogni cosa, il punto culminante ma soprattutto lo spazio decisionale per un’azione che intende andare a buon fine e, dunque, raggiungere il proprio telos. C’è però una possibile derivazione etimologica alternativa di questa idea di tempo che ne fa emergere, con maggiore efficacia, i tratti distintivi. Si tratta dell’idea di tempo come kaîroV, un termine dell’arte della tessitura. Tessere, tempo e fato erano idee spesso collegate. Un’apertura nella trama del fato può significare un varco nel tempo, un momento eterno in cui il disegno si fa più compatto o si allenta: il tessitore spinge la spola e la navetta attraverso l’apertura nei fili dell’ordito al momento critico, il momento giusto, perché il varco nell’ordito ha solo un tempo limitato e il colpo va dato mentre il varco è aperto. Con questa derivazione etimologica alternativa la metafora del tempo che scorre come un unico corso d’acqua in un letto ben definito dal passato al futuro viene sostituita dall’immagine di una serie di pozzanghere, quella che, secondo Bauman, il quale paragona, com’è noto, i concetti di modernità e postmodernità allo stato solido e liquido della società[2], descrive più efficacemente la condizione temporale in cui ci troviamo. Questa condizione, secondo Bauman, è parte di diversi, compresenti, paralleli corsi d’azione, la cui interpretazione nei termini tradizionali della causalità appare sempre più problematica e sempre meno probabile. La nostra, di conseguenza, sta diventando sempre più una vita ‘liquida’, costituzionalmente incapace di mantenere invariata la propria forma e seguire per lunghi tratti la stessa rotta. L’acqua, proprio l’acqua che tanti guasti e guai ha provocato qui da noi a chi ne ha sottovalutato la forza, riducendola per miopia e interesse a un fenomeno “raro” e ormai “marginale”, diventa così una metafora per tutto ciò che ci definisce: il nostro modo di vivere, i nostri sentimenti, le nostre relazioni con gli altri. Cose che ci sfuggono prima di essere comprese.L’esistenza ‘liquida’ è una successione ininterrotta di nuovi inizi ed è proprio per questo che le fini rapide e indolori – senza cui quei nuovi inizi sarebbero impensabili – tendono a rappresentare i momenti di massima sfida, i più insopportabili. Uno scotto da pagare in una società che non può mai star ferma e che, sospinta dall’orrore della ripetizione e della scadenza, deve innovare e cambiare di continuo. O soccombere. Ciò che occorre fare è correre con tutte le proprie forze per restare nella stessa posizione. La liquidità, in definitiva, è la fragilità, la fugacità dei rapporti a cui ci dedichiamo, dei prodotti che consumiamo, dei ruoli e delle identità che assumiamo. È insomma la data di scadenza di tutte queste cose che si avvicina sempre di più alla loro data di «produzione». In questa condizione generale, che caratterizza sempre più la nostra esistenza, l’ orizzonte temporale diventa fortemente contratto e denso, corrisponde in maniera crescente a un’inusuale e abnorme concentrazione sul presente, in cui gli eventi spiccano, più che come durata, come punti che necessitano di essere posti in relazione e coordinati tra loro. Questa indispensabile azione di coordinamento e comunicazione richiama l’arte della tessitura, della costruzione di intrecci tra i momenti significativi delle nostre esistenze, in modo da riuscire a dare loro un minimo di spessore e consistenza. C’è infine, sempre nel mondo antico, nella filosofia greca in particolare, un esplicito riferimento all’’«intelligenza temporale», basata su una concezione del tempo che non è fatta soltanto della capacità di scandire il divenire e di cogliere le occasioni, ma anche di un senso della permanenza e della continuità che risiede in un duplice ordine: quella esperienziale di ogni singolo individuo e quella che oggi definiamo filogenetica specie specifica, che è alla base del sentire, al contempo, la peculiarità e l’intimità individuali e l’universalità. Questa concezione del tempo è incardinata sulla consapevolezza che la memoria personale è fortemente agganciata alla «memoria collettiva», che è alla base della cultura, la ripropone, la conferma e la modella di continuo. Il nesso e l’interazione tra questa dimensione della memoria collettiva e l’esperienza complessiva di ogni singola persona, nel «qui» e «ora» in cui vive, sono contraddistinti e segnati dal tempo della permanenza, dall’ Aἰών, che garantisce la continuità tra le diverse generazioni, quella che Arthur Lovejoy chiama «la grande catena dell’essere». I contenuti archiviati nella mente individuale – eventi, fatti, concetti, capacità – sono proprio per questo qualcosa di più della rappresentazione di una singola e peculiare personalità: essi, come scrive l’antropologo Pascal Boyer, sono anche “il punto cruciale della trasmissione della cultura”. Il tempo come Aἰώ è il soggetto attivo di questa trasmissione, la base sulla quale essa poggia e che rende ciascuno di noi la «cinghia di trasmissione» dell’eredità del passato e la sede dei progetti della storia del futuro. Ma accanto a questo Aἰών eterno, immutabile, fuori del tempo ce n’è però un altro che s’invera nel mondo e ne permette la “durata”, la nascita, la crescita e poi la fine di ogni processo di manifestazione. Sul piano temporale ciò non può essere espresso se non come passato, presente e futuro, mentre sul piano simbolico diventa un Aἰών che si fa fanciullo, poi adulto e infine vecchio. Sono propriamente queste le raffigurazioni più conosciute del dio Aἰών rappresentato come fanciullo non solo nei rituali, ma perfino nella prima concezione ellenica. L’intreccio e il «combinato disposto», ci si passi l’espressione dal sapore burocratico, di questa articolata e molteplice concezione del tempo ci pone di fronte all’esigenza di immaginare e rappresentarci un domani che non si presenti con la faccia, «algoritmica», del futuro come risultato di una successione regolare e della proiezione spontanea del «prima» sul «poi», ma sia invece concepito come «avvenire», carico di imprevedibilità, e perciò denso di rischi, ma anche, come si diceva, di speranze e di opportunità. Purché si sappia e si voglia progettare, più che pianificare, impegnandosi nella ricerca e nella costruzione di idee e modelli teorici adatti a pensare il nostro tempo. Perché solo la capacità di saper vivere il proprio presente rende l’uomo completo e lo pone al riparo da quella che Hegel considerava la malattia di certe manifestazioni di utopia romantica, l’ipocondria, quell’alternanza di fasi di furore progettuale e di esaltazione e di fasi di depressione e di rinuncia che, a suo giudizio, colpisce tutti coloro che, per non volere fare i conti con la “riottosa estraneità”[3] del mondo, con la sua “burbera ritrosia”, che si concede solo a chi sa dominarlo effettivamente, pretendono di saltare oltre la realtà, di proiettarsi nell’ideale e nel possibile senza passare attraverso il tempo presente e lo spazio in cui, di fatto, si svolge la loro esistenza quotidiana. Costoro considerano l’ideale a portata di mano e s’impegnano, di conseguenza, in una frenetica e febbrile attività per realizzarlo: salvo poi concludere, dopo ripetuti e inevitabili fallimenti, che esso è irraggiungibile e sprofondare, di conseguenza, nell’inerzia più totale e nella depressione. Queste considerazioni ci consentono di mettere a fuoco quella che è la base, la condizione imprescindibile di ogni autentica ed efficace progettualità: la capacità di raggiungere un equilibrio attivo e dinamico con il mondo in cui si vive, anche se non è facile, evitando di cadere, da un lato, nella tentazione di restare al di sopra della realtà, con l’utopia, dall’altro, al di sotto, con la rassegnazione. Una bella sfida! Sfida che appare, peraltro, sempre più ineludibile, e di cui la politica, se vuole essere all’altezza della posta in gioco, deve sapersi fare carico. Altro che rifugiarsi nel passato, con la nostalgia e l’estrapolazione, e sognare in modo improduttivo futuri improbabili, se non impossibili. [1] N. N. Taleb, The Black Swan (2007) tr. it. Il Cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita, Il Saggiatore, Milano, 2008
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