Un’autobiografia di Giulia Maria Crespi, la “donna del Corriere” [di Raffaele Liucci]

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Il Sole 24 Ore, domenica 6 dicembre 2015. È un torrente in piena, la memoria della novantaduenne Giulia Maria Crespi in quest’autobiografia. Il che non impedisce di distinguere i tre volti precipui da lei assunti nel corso della sua lunga esistenza, afflitta tra l’altro da diversi tumori, sempre debellati (un risvolto mai sottaciuto, neppure qui). Innanzitutto, la discendente della grande famiglia d’industriali cotonieri, il cui villaggio operaio costruito alla fine dell’Ottocento a Crespi d’Adda (Bg) è oggi patrimonio Unesco.

L’infanzia dorata e solitaria, fra maggiordomi in livrea e precettori privati. I balli, i ricevimenti, i salotti di broccato rosso, le ville di Long Island, i direttori d’orchestra, le incursioni sciistiche al Sestriere in compagnia del quasi coetaneo Avvocato.

Un caleidoscopio di personaggi illustri ed eccentrici, ma anche di luoghi all’epoca immuni dal turismo di massa: Forte dei Marmi, la spiaggia del Lido di Venezia, fra le cui cabine s’aggiravano le famiglie Cini e Volpi, il Ticino azzurro, il Parco Sud di Milano, «pieno di fontanili che zampillavano gorgoglianti dalle pozze». Pagine scritte con la coscienza d’appartenere a una delle ultime generazioni che abbiano conosciuto l’Italia «bella e perduta», non ancora deturpata dal cemento.

Era un universo aristocratico, svagato e anche un po’ fatuo, quello rievocato in questa educazione sentimentale, un mondo che appoggiò il fascismo come male minore, pur disprezzandone intimamente la volgarità. Giulia Maria, cresciuta in una famiglia molto conservatrice, che di fatto controllava il «Corriere della Sera» da fine Ottocento, maturerà un’indole più sbarazzina. Nonostante uno zio ucciso per errore dai partigiani, la Liberazione di Milano resterà scolpita nel suo album dei ricordi, con i cortei di bandiere rosse lungo corso Venezia, dove troneggia la dimora avita.

La seconda fase della sua biografia coincide con il periodo in cui incarnò il settore più illuminato della tripartita proprietà del «Corriere» (1961-74). Sono gli anni concitati del centro-sinistra, della contestazione studentesca, dell’«autunno caldo», della strage di Piazza Fontana, delle prime avvisaglie di lotta armata. Per non parlare dello «scisma montanelliano» con la nascita del «Giornale», propiziata dalla svolta impressa nel ’72 dal nuovo direttore, Piero Ottone. Secondo un’interpretazione benevola, con Ottone il foglio di via Solferino da strumento della borghesia conservatrice si sarebbe trasformato in organo della borghesia liberal-democratica.

Per il transfuga Enzo Bettiza, autore nel 1982 di un memoir al vetriolo, la cerchia radical-chic capitanata dalla Crespi «col suo sinistrismo festaiolo» avrebbe invece avuto «una parte di responsabilità nella diffusione degli impulsi autodistruttivi che dovevano percorrere la società italiana dopo la vacanza utopica del 1968».

Ora, per la prima volta, Giulia Maria fornisce la propria versione dei fatti. Il risultato forse non è all’altezza delle aspettative: pur d’indubbio interesse, questa sezione del volume appare un po’ disorganica, ricca di nomi ed eventi non sempre ben contestualizzati, senza contare le sviste. Un buon editing, unito all’assente indice dei nomi, avrebbe agevolato la lettura.

D’altra parte, queste pagine sono assai incisive nel fotografare la mentalità imperante dietro le quinte di una grande impresa editoriale. I colleghi industriali di Giulia Maria reputano i giornali mere pedine per i loro arzigogolati giochi politici e finanziari. Un milieu dove la qualità dell’informazione non è mai una variabile indipendente. La stessa Crespi confessa la propria ingenuità, proiettata in un salotto felpatissimo che avrebbe richiesto un bagaglio minimo di falsità, doppiezza e diplomazia: «Davanti alle rotative io non capisco nulla».

Che giudizio dare di quella stagione, terminata nel ’74 con la fondazione del «Giornale» di Montanelli, che porterà con sé alcuni dei migliori «corrieristi», e con l’uscita da via Solferino della stessa Crespi, che venderà la propria quota ad Angelo Rizzoli (dietro cui s’intravvedeva l’ombra di Cefis)? Probabilmente, l’addio di Indro era inevitabile: sentiva di rappresentare una fetta di lettori che non avrebbe mai accettato il nuovo corso di Ottone (gli Scritti corsari di Pasolini ospitati in prima pagina, le scoppiettanti cronache di Giampaolo Pansa sui congressi Dc e, soprattutto, le inchieste di Giuliano Zincone sulle «morti bianche»).

Ma è anche vero che la «zarina» Crespi non era affatto quel cavallo di troia del «comunismo» denunciato dalla destra musclé. Piuttosto, funse da barometro, in grado d’intercettare gli spifferi d’una temperie turbolenta, rispetto alla quale il «Corriere» s’era sempre rinchiuso a riccio.

Infine, la «terza vita» di Giulia Maria Crespi è stata quella dell’ambientalista. Sotto il suo impulso, il direttore Giovanni Spadolini – da lei chiamato nel ’68 e poi ritenuto inadeguato – aveva ampliato le pagine “verdi” del «Corriere», affidandole a due agguerriti redattori, Antonio Cederna e Alfredo Todisco. Fra il ’68 e il ’73, lo stesso Montanelli dedicherà oltre una cinquantina di pezzi alla salvezza di Venezia, minacciata da una terza zona industriale. Una volta tanto, Indro s’era trovato in piena sintonia con la proprietaria del «Corriere». Del resto, il loro rapporto a tratti burrascoso conobbe anche lampi di complicità.

Il lascito maggiore di Giulia Maria sarà però il Fai (Fondo per l’Ambiente Italiano), nato nel 1975 da un’idea di Elena Croce, sulla falsariga del National Trust inglese. Non si contano i beni culturali e ambientali recuperati e aperti al pubblico, dall’Abbazia di San Fruttuoso al Castello di Masino e al Negozio Olivetti di Venezia, in Piazza San Marco, progettato nel 1957 da Carlo Scarpa. Proprio nell’area olivettiana è stata allestita la recente e contestatissima mostra fotografica di Gianni Berengo Gardin sulle Grandi Navi in laguna. Un’iniziativa che avrebbe senz’altro apprezzato anche Montanelli, da sempre tuonante contro la «masnada di locuste impazzite, disposte a fare di Venezia un incrocio tra Las Vegas e Disneyland».

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