Perché le banlieue non spiegano niente [di Federico Rampini]

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La Repubblica 5 dicembre 2015. Ci ho vissuto 15 anni – infanzia e adolescenza – in quella Bruxelles che oggi è il covo dei jihadisti d’Europa. Non ho mai smesso di frequentarla, visto che ci sono rimasti sempre i miei genitori, ora mia mamma da sola. A Parigi frequentai, ventenne, i seminari di Raymond Aron. Lì cominciai il mestiere di corrispondente estero 30 anni fa. Ci tornò mio figlio Jacopo a fare la Sorbona. Per anni la nostra famiglia sparpagliata tra la California e la Cina o tra l’Europa e New York, si riunificava a Parigi per Natale.

Quando conosci così le città, quando sono i luoghi dove vivono i tuoi migliori amici e pezzi della tua vita sono incollati al paesaggio locale, diventi allergico alle superficialità, agli stereotipi. A tutte le idiozie che vengono dette in queste settimane da chi cerca una spiegazione facile e rassicurante alle tragedie. Per esempio, per non stancare il cervello di fronte a fatti terribili, angosciosi e complessi, molti diventano di colpo marxisti. Nella versione “bignamino” del marxismo, quella per cui ogni cosa deve spiegarsi con la realtà economica sottostante, i rapporti sociali, le classi, lo sfruttamento capitalistico. Ecco che la jihad penetra perché i giovani di origini arabe o nordafricane sarebbero prigionieri di ghetti, marginalizzati, intrappolati in condizioni economiche disagiate.

Ma davvero? I ghetti per immigrati a Bruxelles io li ricordo bene. Ci vivevano gli italiani. Anni Cinquanta, anni Sessanta: allora sì, il Belgio era un paese razzista. I nostri immigrati andavano a morire per estrarre il carbone nelle miniere della Vallonia. I figli non riuscivano a finire la scuola dell’obbligo. Nessuno di loro imbracciò mai un kalashnikov per farsi giustizia contro i belgi. Non c’erano in circolazione fra loro ideologie di vendetta e di morte.

Un sacerdote a cui sono rimasto legato, Bruno Ducoli, portava qualche liceale come me a lavorare nelle scuole serali. Si discuteva di politica, con chi ne aveva voglia. I coraggiosi osavano iscriversi alle Acli, cattolicesimo di sinistra. I comunisti, se c’erano, non si dichiaravano facilmente. Quando arrivò in Italia e in Francia il terrorismo rosso, i nostri immigrati ne diffidarono subito: era roba per giovani borghesi, universitari, figli di papà.

Oggi, la jihad nascerebbe dalle ingiustizie sociali? Non certo quella di Abdelhamid Abaaoud, 28 anni, uno dei capi della strage a Parigi. Cittadino belga, di origine marocchina. Suo padre era benestante, aveva fatto ottimi affari in Belgio come commerciante. Mise il figlio in una delle migliori scuole private di Bruxelles, un liceo per ricchi.

Sfruttamento, emarginazione, disagio sociale? I guru dei talkshow usano queste formulette come dei passe-partout, per pigrizia intellettuale. I jihadisti no. Di quei problemi, loro non parlano mai. Eppure non mancano i loro proclami ideologici, i documenti di propaganda dello Stato Islamico dilagano “virali” nei social media. Mai che trattino della disoccupazione tra giovani immigrati; mai che denuncino qualche problema sociale nelle banlieue. Sono temi completamente estranei al loro orizzonte ideologico. Non gliene può importare di meno. Quel che odiano dell’Occidente non è lo sfruttamento capitalistico né le diseguaglianze sociali, ciò che denunciano è lo Stato laico che mette tutte le religioni sullo stesso piano, la libertà di espressione, la libertà dei costumi, l’emancipazione femminile, il fatto che le donne possano studiare e lavorare, vestirsi come preferiscono, sposare chi vogliono loro.

Se fosse vero che le nostre ingiustizie sociali generano malessere e ribellione violenta, il brigatismo rosso dovrebbe esistere nell’Italia di oggi, dove gli indicatori della disoccupazione giovanile e del precariato sono decisamente peggiori rispetto agli anni Settanta. Le ideologie di terrore, di sopraffazione e di morte, hanno vita autonoma come i virus. È sul piano delle idee che vanno analizzate, contrastate e sconfitte. Non servono i guru che usano etichette a vanvera, per le banlieue sfoderano termini come apartheid, intifada. Senza un’idea delle origini, del contesto storico. Perché in vita loro non hanno mai messo piede in una periferia parigina, né in Cisgiordania, o nel Sudafrica di Nelson Mandela.

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