Il dilemma mediterraneo: contenere o affrontare i conflitti in atto? [di Mario Rino Me]

museo-del-bardo

Preambolo. A partire dal 2003, quando la Strategia Europea per la Sicurezza descrisse enfaticamente un’Europa che “non era mai stata così prospera, così sicura e così libera” (http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cmsupload/78367.pdf) siamo entrati in un contesto di dinamiche incessanti e in una gamma di problemi sovrapposti e complicati. Il risultato è che l’ambiente di sicurezza non è mai stato tanto carico di incertezza, confusione e ambiguità, e pertanto imprevedibile. Nel complesso la storia mediterranea ha voltato pagina: di fatto le minacce che bussano alla nostra porta sono più pressanti e reali. A uno sguardo da lontano, il “Mediterraneo allargato” (questo termine viene associato allo spazio trans mediterraneo allargato, il cui perimetro supera i contorni della massa liquida), in virtù di realtà quali, ma non solo, la contiguità geografica, la prossimità e l’interdipendenzaappare come una regione disseminata di conflitti, il che è riconducibile a situazioni, di vecchia data in alcuni casi, in altri nuove.

Non si tratta di una mera coincidenza se la stampa occidentale, e persino alcuni studiosi, utilizzano il termine guerra, come un richiamo emotivo ad atti di guerra, per descrivere l’attuale situazione. Di fatto, la comunità scientifica ha lungamente dibattuto su quali condizioni siano necessarie perché si parli di guerra e il denominatore comune è stato trovato in un certo numero di parametri, quali i numeri implicati nonché “una misura sostanziale di organizzazioni da entrambi i lati”.

Va da sé che il termine guerra era riferito a una questione fra stati, che implicava operazioni militari protratte nel tempo, di ampiezza, intensità e profondità adeguate. Eppure, nel corso dell’evoluzione delle società, in accordo con le forze della modernità, il Diritto Internazionale si è adeguato istituzionalizzando l’espressione “conflitto armato”, più generica e inclusiva. In questo periodo, stiamo vivendo in quello che Papa Francesco ha chiamato la “III guerra mondiale a pezzetti”, vale a dire una zona grigia fra gli estremi della guerra e della pace, in cui le esigenze della sicurezza si mescolano alle dinamiche sociali: qui l’intervento militare appare come qualcosa di più un’azione umana armata in un ambiente rischioso che si presenta come incivile. Adattarsi alla guerra postmoderna si è dimostrato un compito spaventoso per forze armate moderne e prestigiose. Ma andiamo ad analizzare la situazione approfonditamente.

I fattori chiave. Il contesto del “Mediterraneo allargato” (Mario Rino Me, Il puzzle mediterraneo, Tetide 1/2015, http://www.centrostudimediterraneo.com/rivista.html ), che fornisce sostanza alla visione di F. Braudel del Mediterraneo come una “successione di mari”, è fondamentale per capire le dinamiche della regione. In caso contrario, corriamo il rischio di perdere la visione d’insieme e di fare i conti con la complessa bagarre che riguarda una vasta area che si allunga dall’Africa occidentale all’Afghanistan. I fattori che si trovano alla base del diffuso disordine in corso nel “Grande Mare”, che riguardano il concetto strategico, sono fondamentalmente quattro e correlati fra di loro. Il primo è confermato dal fenomeno della migrazione, sempre meno controllabile, che transita per le via del mare e dei Balcani.

Migrazione è un termine generico che raduna i rifugiati, i richiedenti asilo e le persone in fuga dalla fame o in cerca di migliori condizioni di vita. I primi due tipi godono di uno status giuridico che li protegge. Il terzo è un fenomeno naturale per l’umanità che, a seconda delle proporzioni che assume, può rivestire una dinamica geopolitica preoccupante. Ai giorni nostri, i flussi migratori hanno raggiunto la dimensione di una crisi umanitaria che, congiuntamente ai modi in cui viene trattata, sottopone a diversi tipi di tensione le comunità di arrivo, stazionamento e distribuzione. In termini di sicurezza umana, ci possiamo chiedere se si tratta di un’emergenza o di un fattore strutturale di quest’epoca. Quest’ultima interpretazione risulta più realistica, per via dei suoi legami stretti con altri fattori simili, quali, ma non solo, le guerre che si prolungano, il sottosviluppo e l’impatto dei cambiamenti climatici (ad esempio, l’atroce problema della malnutrizione che, diversamente dall’esplosione di armi, non attira la telecamere).

Come conseguenza dei fattori appena menzionati, la storia recente ha dimostrato che, oltre alla sicurezza, anche lo sviluppo è indivisibile. Per quanto concerne le implicazioni umanitarie, sullo sfondo della visione italiana del Mediterraneo come “mare di prossimità”, l’alto tasso di perdite di vite dei migranti che attraversano il mare, ha spinto il Governo italiano a lanciare iniziative umanitarie quali l’operazione Mare Nostrum. In questo contesto, l’insieme di tali iniziative ha salvato decine di migliaia di migranti, e alcune centinaia di trafficanti sono stati assicurati alla giustizia. In seguito, sullo sfondo di una U.E. passibile di essere considerata troppo passiva, il Consiglio Europeo ha lanciato l’operazione navale Euronavformed “Sophia”.

L’insieme delle sue finalità militari è duplice, vale a dire contribuire a “distruggere il modello affaristico delle reti di contrabbando e traffico di vite umane nel Mediterraneo”; e a “prevenire ulteriori perdite di vite in mare.” Laddove la prima era stata accolta ovunque, alcuni osservatori della sponda sud, invece, hanno percepito la seconda come una sorta di “militarizzazione del Mediterraneo” (http://kapitalis.com/tunisie/2015/09/21/loperation-euronavfor-med-ou-la-militarisation-de-la-mediterranee/) Nell’arena delle relazioni internazionali, sebbene siano considerate una scienza “soft”, le percezioni sono anche più importanti della realtà. sullo sfondo di un caso potenziale di dilemma della sicurezza, mi chiedo se qualcuna di queste attività possa essere condotta in un ambito multinazionale, al fine di dare sostanza al tanto propagandato principio di inclusione.

La riscoperta di questo principio chiave spinge ai margini il precedente principio di condizionalità della Commissione Europea per la politica di vicinato (“più per più” che implica anche “meno per meno”). Sotto la pressione delle sopradette dinamiche umanitarie, reazione rapida e denaro per l’emergenza superano la condizionalità così come viene definita dalla Politica europea di vicinato.

Il secondo fattore è rappresentato da una crisi del sistema delle relazioni internazionali. L’utilizzo non così raro di nuove forme violente nelle relazioni internazionali da luogo a una specie di “paralisi globale” (https://www.amnesty.org/en/annual-report-201415) che colpisce il Consiglio di Sicurezza delle NU. In questo vuoto della governante globale, si cercano forme irregolari di perseguimento degli obiettivi strategici. Queste prevedono metodi e mezzi pesanti da parte degli stati riconosciuti o da parte di attori non statali violenti, quali le imprese estremiste che ricorrono a mezzi e metodi terroristi con effetti di massa, nel disprezzo di qualsivoglia regola e principio universale.

Nel primo caso, la scatola degli attrezzi include vecchi metodi come l’occultamento, l’aiuto umanitario, quinte colonne così come forze militari nascoste. Sono delineate nella cosiddetta teoria del Gen . Gerasimov (Sam Jones, Ukraine: Russia’s New Art of War, Financial Times 28 agosto 2014), mirata a mettere a punto un “conflitto congelato”, che è uno strumento politico a mettere sotto pressione la controparte, quando necessario.

La seconda sottocategoria è rappresentata dal modo in cui l’impresa dell’autoproclamato Stato islamico è arrivata al potere, e ancora lo detiene, sfruttando alcune caratteristiche quali la “santuarizzazione” degli spazi, l’efficacia della sua strategia di comunicazione e così via, portando avanti la sua agenda politico-religiosa con mezzi e metodi terroristici, in zone colpite da crisi politica cronica. Lo stesso si può dire di altri movimenti ispirati-affiliati o competitori della galassia del terrore, ad esempio, ma non solo, Boko Aram e Al Nusra. Nel mondo reale, Daesh presenta qualche somiglianza con uno stato: il territorio, la sovranità, la bandiera, il monopolio della forza, l’amministrazione e le risorse (ad esempio, le donazioni in cambio dell’obbedienza assoluta).

I due fattori perturbanti alla periferia del Mediterraneo, vale a dire l’arco europeo orientale e l’altro che si estende dall’Africa occidentale e che abbraccia la sponda sud del Mediterraneo fino al Medio Oriente, si incontrano nel Mar Nero. Le figure del terrorismo mi portano al terzo fattore chiave, vale a dire il circolo vizioso di divisioni religiose e settarie all’interno del mondo arabo, che hanno portato al caos di cui oggi siamo testimoni.

Vent’anno dopo le aspettative suscitate dal lancio del processo di Barcellona, le nubi si addensano sopra una vasta area che va dall’Africa occidentale, include la Libia e il Medio Oriente e si allunga fino al Corno d’Africa e fino all’Afghanistan, colpita da guerre frammentarie di instabilità regionale. Lungo il suo cammino, la Primavera araba si trasforma in un più ampio “risveglio arabo”, assumendo perciò connotazioni geopolitiche; in realtà, sembrerebbe che soltanto le divisioni settarie siano state risvegliate.

Si tratta fondamentalmente sia di una lotta per il ruolo della religione che di uno scontro confessionale permanente nel mondo musulmano, che si sono intrecciati in una situazione difficile in gran parte della terra araba, particolarmente in alcuni mosaici etnico-religiosi del Medio Oriente (MO) (Anthony Cordesman, The “Arab Spring” Becomes the “Arab Decade” http://csis.org/publication/arab-spring-becomes-arab-decade). Il che mi porta ad una sottocategoria, vale a dire i rischi di una dissoluzione degli Stati che derivano da deboli legami stato-nazione di fronte alle nuove sfide.

Qui troviamo due aspetti che meritano attenzione. Primo, un intensificarsi della violenza settaria e di clan ha fornito nuove opportunità a gruppi violenti sedicenti jihadisti lungo l’arco a sud del Mediterraneo e in Medio Oriente. Di fatto ci troviamo in un’epoca di ideologie politiche che perseguono fini religiosi che, come abbiamo già detto, fanno ricorso a pratiche terroristiche per imporre i loro programmi. Voglio sottolineare questa duplice netta differenza: la prima è fra l’ideologia, che stabilisce il fine politico e il modo in cui viene perseguito, vale a dire la tattica che, nel nostro caso, è il terrorismo; la seconda, fra la vera ideologia (concepita e promulgata da uomini) e la fede che mette in forte evidenza l’abisso che divide il genuino sentimento religioso da un discorso religioso intollerante che nega qualsiasi diversità confessionale.

Ciò è dovuto al fatto che questa errata percezione porta a una sorta di militarizzazione della minaccia, destinata a limitare entrambi i successivi course of action così come la gamma di strumenti alle sole componenti della sicurezza militare/interna. Pertanto, agendo secondo politiche limitate, corriamo il rischio di focalizzarci sui sintomi invece che sulle cause che si trovano alla radice, ad esempio, ma non solo, quelle di natura socioeconomica e politica, con il filo comune delle ineguaglianze, vere o presunte. Il gruppo fanatico a cui mi riferivo prima agisce, secondo le parole del Presidente Hollande, “in nome d’un Dieu trahi<0Mediterraneo allargaiato dal Presidente francese durante la cerimonia di lutto sull’Esplanade des Invalides a Parigi, il 28 novembre), secondo schemi operativi che aprono delle brecce nella attuale fase di esitazione della Comunità Internazionale (IC).

I vuoti rappresentano una forte attrazione per i gruppi terroristi, che padroneggiano sia le pratiche militari che le attività militari, secondo il modello temprato in battaglia della criminalizzazione degli spazi. Di fatto, i profitti del traffico di droga e altro vengono reinvestiti per ampliare il raggio d’azione, aumentare le capacità e corrompere ufficiali e politici. Il che sfocia nell’erosione degli spazi residuali di sovranità e al crollo del tessuto sociale. L’impressionante aumento dei terroristi militanti di Daesh (ISIL, successivamente ISIS), per citare l’esempio più notevole, da forma a un tipo di minaccia multiforme, che ha acquisito la capacità, per ampiezza e letalità, di rappresentare una sfida strategica per la comunità internazionale. Inoltre, la sua efficace legione straniera e la diffusione di gruppi affiliati che hanno giurato fedeltà da luoghi quali l’Afghanistan, la Nigeria, l’Egitto e la Libia, ha messo in atto una sorta di delocalizzazione di una minaccia sfuggente e pervasiva.

Tale configurazione garantisce un territorio a geometria variabile e la capacità di spostare le prime linee. Questa aggregazione si riflette adesso sul nuovo marchio, che è diventato alla fine l’IS. In termini di politica militare, il terrorismo è la minaccia difficile con cui fare i conti. Può essere prevenuta ricorrendo ad adeguati metodi di raccolta di informazioni, basata sulla qualità e sulla rapidità dell’entrata in azione. Ai giorni nostri, Libia e Siria appaiono come espressione simbolica di un precedente storico, quello del “grande gioco” nell’Asia centrale del XIX secolo.

Di norma, nella gestione delle crisi si applicano due regole d’oro:
1) stroncare sul nascere il concentrarsi dei problemi, al fine di impedire una conseguente corsa contro il tempo;
2) isolare i focolai. Laddove il prima sembra inapplicabile nell’attuale stallo dell’UNSC, il secondo mi porta al…

Quarto fattore: gli attori esterni alla regione e il ruolo che svolgono nel mondo reale, o in essere. Il Mediterraneo vive secondo la logica dei crocevia strategici, passibili di interventi da parte di potenze esterne. Sullo sfondo di un percepito disimpegno statunitense e di un UE ripiegata su se stessa, il vuoto conseguente è stato riempito da altri attori, quali la Russia, la Turchia e l’Iran. Come abbiamo già detto, mentre l’UE cominciava a mettere in moto alcune iniziative volte a porre le fondamenta della normalità, la Russia si è intromessa nella guerra civile siriana, in corso da quattro anni, aiutando le truppe del governo a riguadagnare alcuni territori perduti, nonché combattendo l’autoproclamato Stato islamico. Questo repentino intervento e la preoccupazione che ha suscitato, al tempo stesso, hanno fornito una forte spinta al processo negoziale, al fine di superare l’attuale fase di stallo, accentuata dall’assenza di una forza trainante. Tuttavia, il recente abbattimento di un aereo russo che operava in prossimità del confine con la Turchia ha esasperato la frattura fra i due membri della strana coalizione.

Sullo sfondo di forze ribelli appoggiate dagli Stati Uniti e forze regolare appoggiate dalla Russia, per un breve periodo di tempo, si è verificata una guerra per procura. Anche la Francia ha dato il via a una specifica campagna aerea contro l’Isis e, in seguito agli attacchi di Parigi, ha aggiunto la sua voce a quelle di coloro che spingono per una allargamento dell’intervento occidentale. Al fine di evitare incidenti involontari, alcuni attività volte a deconflittualizzare i rapporti sono in corso fra Stati Uniti e Russia, ma siamo ancora lontani dagli sforzi di coordinamento e integrazione richiesti dalla Francia in questi giorni. Di fatto lo scenario della Coalizione risulta complicato da un certo numero di attori maggiori che giocano giochi diversi su differenti tavoli per portare avanti le proprie priorità.

Dopo tutto e per il momento, si tratta di una situazione ingarbugliata e complessa, che richiede trasparenza fra i membri della Coalizione e gli altri: un clima che fino ad oggi non si è ancora verificato. La storia ci insegna che le guerre e le insurrezioni supportate dall’esterno sono estremamente difficili da sconfiggere. Senza dubbio, ci troviamo in una fase in cui prevalgono le domande: a chi giova questo stato di cose? Come dissipare la diffusa sfiducia fra i partner. Il che mi porta a soffermarmi su…

Cosa sta succedendo. In Libia, una crisi politica si è intrecciata con problemi di sicurezza interna, con la migrazione e il terrorismo. Dopo penose negoziazioni,e , in esito alla recente conferenza di Roma, i rappresentanti dei due Parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk hanno siglato in Marocco uno storico accordo, sponsorizzato dalle Nazioni Unite. Questo tanto atteso risultato strumentale alla soluzione della lunga guerra civile mira alla formazione di un governo di unità nazionale e a definire un percorso per la stabilizzazione del paese. Tuttavia , l’esperienza ha dimostrato che il modo in cui il processo democratico è reso operativo in occidente (tramite rappresentanti) non può essere ripetuto altrove in modo efficace: occorre dunque includere anche i raggruppamenti armati sociali/tribali che temono di essere esclusi dal discorso politico.

Nel frattempo, sfruttando il vuoto creato dai due governi in conflitto, l’IS ha aumentato le sue vaste entrature. (http://www.economist.com/news/middle-east-and-africa/21678761-chaos-libyas-civil-war-has-allowed-islamic-state-consolidate-its-position). In Medio Oriente, il blitz dell’ISIS, che ha superato altri estremisti violenti, ha portato alla sparizione delle frontiere in una vasta area, secondo gli esperti delle dimensioni del Regno Unito.

Come conseguenza del suo potere di attrazione, la presenza dell’IS è ben consolidato in parti rilevanti di Siria, Iraq, Fezzan, Sabatra e Cirenaica (Fonti aperte analizzano la confluenza di movimenti ispirati ad AQ, quali Ansar-al Sharia e al-Nusra, nelle fila dell’ISIS ), nonché nella sua nuova provincia del Sinai. Le previsioni per il periodo post-guerra civile si concentrano sull’integrità delle frontiere degli Stati in questione. Per il momento, nessuno osa proporre una visione per il futuro, dato che porterebbe probabilmente alla ridefinizione della mappa della geografia politica. Inoltre se, da un lato, il conflitto in atto da quattro anni è già debordato in Libano ravvivando tensioni latenti; dall’altro, ha spinto gli Stati Uniti e l’Iran verso un partenariato in precedenza impensabile in Iraq.

Le speranzo si appuntano adesso sul processo di Vienna e sulle numerose maratone diplomatiche volte a gestire le differenze al fine di massimizzare gli sforzi contro l’IS. In parte perché, guardando alla periferia sud, due importanti crisi ulteriori si stanno aprendo nella striscia del Sahel, associate alla difficoltà della transizione in Mali e nella Repubblica Centrafricana. Nel complesso, tali numeri complicano l’equazione della stabilità regionale.

A questo punto, dovremmo riflettere sulle ragioni del successo dell’IS, per finalizzare meglio qualsiasi azione. Secondo la dottrina, un successo di tali dimensioni non potrebbe esistere senza il supporto della popolazione, considerato una specie di conditio sine qua non. Come sappiamo, quest’ultima è la chiave di volta nella dialettica Insorgenti-COIN, laddove i fronti opposti si contendono “i cuori e le menti”.

Di fatto ci troviamo di fronte a una situazione mista: se, da una parte, l’ondata di violenza dell’IS ha provocato ingenti flussi migratori, dall’altra, i racconti di alcuni giornalisti mostrano che la popolazione locale, sebbene sottoposta a pressione, riconosce che il lavoro, la giustizia e la libertà di movimento sono garantiti. quest’ultima spiega come mai la lungamente attesa e spinta offensiva primaverile irachena per riconquistare importanti città (quali Ramadi e Mosul) sia stata continuamente rimandata.

Da una parte, l’IS sembra contenuto sul terreno: come risultati di alcune battute d’arresto, la porzione di territorio principale sotto il suo controllo (parti occupate della Siria e dell’Iraq), si sta riducendo. dall’altra, sconfiggerlo significa occupare Raqqa e Mosul: la sfida è mobilitare un tale sforzo bellico e risvegliare i cuori e le menti per dare vita a una opposizione interna, precondizione per sradicarlo. In realtà, nell’area sunnita, c’è una grande diffidenza nei confronti della politica di Bagdad: il “risveglio sunnita” del 2007 che ha portato al cambiamento del corso degli eventi, sembra un resto del passato, dato che i sunniti hanno adesso la sensazione di non essere parte del discorso politico.

Con queste premesse, la lotta contro Daesh dovrebbe implicare un intervento di liberazione contro una potenza occupante, che affronti non solo le sue milizie armate, dalle quali trae la sua forza, ma anche altre linee di lavoro, ad esempio i suoi canali di finanziamento, la sua cultura rozza e antiquata, la necessità di agire in società in guerra ecc. per avere successo, la Coalizione dovrebbe pertanto prendere in considerazione l’idea di un dispiegamento sul terreno con numeri consistenti e funzioni di comando e controllo.

Quest’ultimo dovrebbe almeno garantire arruolamento e coordinamento per l’allineamento di truppe disponibili lungo la striscia degli stati falliti, tenendo anche conto, come già detto, gli aspetti umanitari di questo tipo di intervento armato. In seguito all’abbattimento dell’aereo russo a Sharm el Sheikh, all’attacco suicida a Beirut e al massacro di Parigi, i nuovi segnali di una rinvigorita minaccia terrorista, sebbene frammentaria, smentiscono il racconto di un IS sconfitto e sulla difensiva nella penisola del Sinai.

Di fatto, ha dato prova di capacità di resilienza e tattiche. senza perdere di vista la sempre viva capacità di attrazione, concretizza nel fenomeno dei pendolari di guerra e le conseguenti paure di ritrovarsi il nemico in casa. Pertanto dovremmo stare in guardia, dato che i timori non sono esagerati. Fra l’altro, gli ultimi attacchi di Parigi ha dimostrato che l’impronta dell’IS in Europa è ben organizzata (sia dal punto di vista operativo, con squadre della morte, composte anche di kamikaze, sia da quello logistico), ben diretta e letale. È arrivato il momento di fermare il progressivo deterioramento della situazione.

Alcune considerazioni e proposte. Generalmente, il Medio Oriente è un ambiente complesso con le proprie logiche: ad esempio, avere un nemico comune non implica necessariamente che un nemico diventi amico. per fare un esempio pratico, mentre le orze turche vanno e vengono all’interno del Kurdistan iracheno (Conseguenza dei rapporti di buon vicinato che sottolineano il divario fra Erbil e Bagdad) in Siria, il territorio curdo sotto controllo dei Peshmerga viene visto dal governo turco come un potenziale porto sicuro per il Partito dei lavoratori curdi (PKK), che considera la minaccia principale. La Siria, dal canto suo, rappresenta il terreno di scontro tra due storici rivali regionali: Porta verso il Medio Oriente per l’Impero ottomano e Ponte verso il Mediterraneo per l’impero Persiano; nella storia recente , si è venuto ad aggiungere il ruolo do testa di ponte, per l’Unione Sovietica prima e, in seguito, per le Forze Armate russe.

Di fatto, di fronte a una minaccia senza precedenti, ci sono dissensi e disaccordi fra i partner sulle priorità, ad esempio su chi sia da considerare il nemico pubblico numero uno, su quali metodi seguire (persino all’interno dell’Alleanza, in particolare se adottare azioni cinetiche o solo misure soft, o entrambe) e sugli obiettivi politici (cosa fare dopo la sconfitta di Daesh, che comporta entrambe le visioni, i paradigmi e le strategie di uscita). In altre parola, manca l’unità di vedute. Inoltre, per un certo tempo, alcuni membri guida della Coalizione hanno portato avanti la loro guerra da soli, mettendo a repentaglio un altro principio chiave della guerra: l’unità degli sforzi. Senza politiche e azioni coerenti, una strategia efficace è inconcepibile. Dopo tutto, il concetto di strategia può essere associato a una politica in movimento, laddove la sua applicazione è una chiave per il successo.

In tale contesto, le attività militari della Coalizione, iniziate alla fine di settembre 2014 (A tal proposito, l’Italia partecipa alla campagna contro l’ISIS in Iraq con assetti per la ricognizione aerea/ il rifornimento in volo, nel processo di costruzione delle capacità (esercito e polizia nazionale a statuto militare e nella lotta per chiudere i canali di finanziamento). Durante la pausa del Ramadan, l’addestramento dei Peshmerga curdi è stato eseguito con gli Yazidi)., sono state condotte con obiettivi, mezzi e scopi limitati; inoltre, vari partner importanti si sono gradualmente dileguati. Eppure la teoria afferma che il potere aereo, specialmente utilizzato in quantità limitata, come una pioggerellina e non come una tempesta, non garantisce il successo nelle guerre interne. Di conseguenza, non possiamo stupirci se questa forma di contenimento al risparmio non ha ancora ottenuto risultati strategici: per distruggere la sua leggenda di invincibilità il cosiddetto califfato deve essere sconfitto anche militarmente. In realtà, non riuscendo a creare delle sinergie, la Coalizione appare, de facto, più virtuale che reale.

Pertanto, per renderla efficace, è necessaria una forza che la guidi. L’accusa di doppiezza senza precedenti rivolta dal presidente Putin ad alcuni membri (che mantengono legami sia l’IS sia con la Coalizione) mette a nudo le contraddizioni che ostacolano la sua efficacia e, creando una spaccatura, offusca la pretesa di una potenziale leadership occidentale. Nel frattempo, in esito a una riunione convocata a Riyadh, é stata creata a una vagamente definita “Islamic military Alliance“ a guida Saudita.

Essa , raggruppa 34 Stati Sunniti e mira a creare “un fronte unito contro gli estremisti” (Associated Press, Saudi Arabia creates Islamic bloc to fight terrorists, IHT Dec. 15 -2015), che si può intrepretare come un fattore di dissuasione per l’opposta potenza regionale. Di certo, l’interazione tra le coalizioni esistenti pone l’esigenza di risolvere inevitabili interferenze sul terreno. In termini di politica militare, l’insieme dei fattori summenzionati mette in evidenza gli ostacoli di uno scenario senza precedenti, composta da agende in conflitto che derivano dal riemergere del lungo conflitto sunniti-sciiti, che ha ravvivato le tensioni regionali, dinamiche dell’Europa orientale dell’epoca post-guerra fredda e, infine, una serie di conflitti interni in terra araba che si intrecciano con una minaccia transnazionale che ha il suo epicentro in Medio Oriente.

In termini di gerarchia delle minacce, laddove i primi due conflitti e quello interno sembrano gestibili disinnescando le tensione fra gli attori maggiori attraverso il rafforzamento della dimensione politica, diplomatica e del civismo, la minaccia principale, vale a dire l’IS, deve essere affrontata e sconfitta non solo militarmente. Ad esempio, parallelamente all’azione politica con gli sponsor esterni e le assemblee interne in conflitto fra di loro in Libia, sarebbe opportuno dar vita a un processo inclusivo, con i gruppi tribali/clan che controllano le milizie. Risolvere la situazione libica aiuterebbe a controllare il sottostante problema della migrazione.

Parliamo adesso della riflessione in corso su come “ridimensionare e infine sconfiggere la minaccia dell’IS” (Parole del Presidente B. Obama, le sue linee guida politiche iniziano con “contenimento”, http://www.thedailybeast.com/articles/2015/11/13/ obama-forget-about-destroying-isis-we-just-need-to-contain-them.htm). Nel clima del disimpegno occidentale, conseguenza delle ultime tre “guerre insoddisfacenti”, in Afghanistan (etichettata come guerra necessaria) nonché in Iraq-Libia (guerre volute), si è affermata la nozione che la responsabilità delle guerre interne (ad esempio, contro i gruppi fanatici e/o divisioni settarie) ricade sulle spalle delle rispettive regioni in cui sono scoppiate. In tale contesto, se si deve intraprendere un intervento militare, le potenze di supporto possono contribuire con capacità di nicchia, quali attacchi aerei e nuove forme di guerra, ad esempio la guerra a distanza con i droni insieme alle Forze speciali. Di solito, questo approccio presenta il duplice vantaggio di rafforzare le componenti locali etniche e/o religiose affinché diventino padrone del proprio destino, nonché di limitare l’impronta occidentale, evitando così che la Coalizione perda terreno.

Nel nostro caso, si tratta di un tipo di intervento “limitato”, nel quadro di una strategia di logoramento che comporta anche altri tipi di azione (tenere traccia dei flussi finanziari e così via), creando delle capacità (assistere e addestrare le truppe sul terreno, i controllori di volo, le forze di polizia, ecc.). In tale configurazione, anche l’Europa ha i suoi doveri, per ragioni di contiguità: di fatto, quando si tratta di sicurezza, la contiguità implica responsabilità.

In accordo con il paradigma illustrato, in questo momento, la presenza di truppe sul terreno inviate da nazioni occidentali è esclusa in Siria; la paura di rimanere imbrigliati in impegni senza fine si presenta come un ostacolo insormontabile sia per i vertici politici che per quelli militari, nonché per le società occidentali, ancora provate dallo sforzo dei precedenti interventi di lunga durata. Sul piano degli attori locali, sembra impossibile giungere ad una azione congiunta di curdi, iracheni e altri vicini: fino ad ora, interessi divergenti hanno reso impossibile un’azione unitaria, dato che ciascuno di questi sembra capace e disposto a difendere il proprio territorio e nient’altro. Inoltre, ciascuno dei summenzionati outsider ha i propri timori in materia di sicurezza.(Mentre la Turchia teme un santuario curdo per il PKK nel proprio cortile, l’Iran, a sua volta, teme un fronte unito sunnita e l’Arabia Saudita ha sempre considerato l’Iran come la minaccia principale).

Nell’insieme, la sfida presenta quattro sfaccettature: geopolitica, diplomatica, militare e umanitaria. In breve, modificare l’ambiente e, in termini politico-militari, raccogliere una forza in essere secondo una strategia adeguata, tenendo conto che, nel vuoto, è ugualmente necessario un buon lavoro di polizia, come quello dei Carabinieri.

Sul terreno, recenti successi ottenuti dall’IS all’esterno sembrano controbilanciati da alcuni fatti del mondo reale. In realtà, il territorio occupato dall’IS in Medio Oriente è quasi circondato, tanto più in ambiente ostile: in seguito alle pesanti perdite subite a Kobane
e Sinjar, sembra che l’IS abbia raggiunto il suo culmine e sia geograficamente contenuto nella sua terra d’origine (Fighting near and far, The Economist Nov 21st -2015).

Rimanendo nell’ambito della gestione della crisi, il contenimento è un modo di gestire il rischio a breve termine, mentre oggi cerchiamo quello a lungo termine, vale a dire l’insieme di azioni che risolvano il problema alla radice. In tale prospettiva, “ridimensionare” l’IS implica il rafforzamento degli scambi di tra i servizi di intelligence (ad esempio in materia di pendolarismo dei militanti), nonché un uso del potere aereo massiccio e coordinato al fine di ottenere effetti strategici.

Ad esempio, l’isolamento della madrepatria dell’IS dalle sue ramificazioni geografiche, riducendo le sue capacità di spostare i fronti, potrebbe portare all’implosione del regime dell’IS e al conseguente inizio della stabilizzazione militare dell’asse dell’instabilità. In breve, i limiti dell’IS, da una parte, e le restrizioni/costrizioni della Coalizione dall’altra, portano a uno stato di equilibrio strategico. In questo contesto, solo un accordo USA-Russia, e di conseguenza Arabia Saudita-Iran, può portare a un vero cambiamento.

Nel frattempo, il ritmo delle operazioni diventa la chiave per contenere usurare l’IS. In linea con questo principio, a partire da novembre 2015, gli Stati Uniti, la Francia e la Russia hanno incrementato i loro assetti e la logistica, intensificando il ritmo delle operazioni: alcuni risultati sono già visibili. Di sicuro, sono necessarie delle forze sul terreno in numero consistente, al fine di rimuovere gli estremisti militanti (da manuale, sono necessari cinque militari addetti alla sicurezza o simili per rimuovere un ribelle asserragliato). Questo non implica una impronta occidentale, dato che l’esercito iracheno e siriano, insieme alle forze dei Peshmerga, come si è già detto, possono unire le forze.

Dopo tutto, la strana logica della Counter-insurgency, secondo la famosa affermazione di Henry Kissinger, è che “la guerriglia vince se non perde, [laddove] un esercito regolare perde se non vince” (Foreign Affairs, Vol. 48, No. (gennaio 1969), p. 214.). Per ottenere questo risultato, e disperdere la sfiducia, è richiesta una leadership super partes abbastanza credibile per ottenere sia il consenso che la costruzione della Coalizione con fermezza ed equità con gli attori e gli sponsor, nonché la direzione strategica delle operazioni al fine di massimizzare.

Questo implica che le cose si devono svolgere in modo trasparente, che non c’è spazio per il “politically correct”, che si deve giocare a carte scoperte. In questo contesto, non ci sono alternative alla leadership degli Stati Uniti, l’unica capace di mantenere un equilibrio fra i due blocchi (sciita e sunnita) e mettere a disposizione tutto il suo potenziale. Il che implica un ritorno alla Carta atlantica che deve prevalere sugli interessi particolari.

Nel contesto della battaglia dei cuori e delle menti, l’ottenimento di un vantaggio strategico a lungo termine è di importanza fondamentale, al fine di sottrarre all’ideologia il suo potere di attrazione, dove le capacità soft possono assumere un ruolo decisivo. Implica il coinvolgimento di attori non statuali, della società civile, dell’Accademia ecc. per facilitare gli scambi al fine di soddisfare le esigenze della gente, al fine di evitare sacche di esclusione. Per fortuna, ci sono anche segnali che fanno ben sperare in una fine della guerra in Siria.

Primo, la dichiarazione congiunta del Gruppo internazionale di supporto alla Siria, riunito a Vienna il 14 novembre mette in risalto la convergenza su alcuni aspetti cruciali (Si tratta di un forum inclusivo che agisce come una specie di camera di compensazione, che riunisce sciiti e sunniti alla stesso tavolo http://www.state.gov/r/pa/prs/ps/2015/11/249511.htm. Includono, fra l’altro, “un intendimento comune su numerosi problemi fondamentali… lavoro per implementare un cessate-il-fuoco su scala nazionale in Siria… impegno in quanto singole nazioni e sostenitori dei vari belligeranti… di richiedere l’adesione al cessate-il-fuoco da parte di questi gruppi o individui che supportano, sostengono o influenzano… volontà espressa di incoraggiare le misure di costruzione della fiducia… Elezioni libere ed eque si dovranno tenere a seguito della nuova costituzione entro 18 mesi, sotto la supervisione delle NU.”).

In più il 18 Dic , Il Consiglio di Sicurezza delle NU Ha approvato un documento che definisce un piano per la fine delle ostilità e per l’avvio di un processo di pace. Se, da una parte, si deve vedere se le parti firmatarie arriveranno a un risultato, e di che portata, ci sono altri fattori da considerare. Secondo, non si registrano precedenti storici di regimi del terrore (persino Stati) di lunga durata.

Pertanto, la marea dell’ondata ideologica fanatica è probabilmente destinata a ritrarsi a causa degli intollerabili abusi ai danni dei suoi sottoposti. Terzo, la consapevolezza comunemente condivisa della minaccia; terzo, la suddetta situazione sul terreno e infine alcuni segnali dell’unità di intenti e di sforzi (originata dalla suddetta Coalizione incrociata e dai colloqui fra le parti i conflitto in Libia). Resta da vedere se delle negoziazioni solide ed eque sono in grado di disperdere le sfiducia esistente e di far passare il messaggio che il futuro della regione degli Stati distrutti dalla guerra è più importante degli interessi di parte che possono soltanto peggiorare la situazione attuale.

Inoltre, un nuovo clima di cooperazione regionale, riadattando gli strumenti esistenti, può aprire la strada alla creazione di un ambiente migliore. Solo adesso ci stiamo rendendo conto dell’opportunità mancante dell’Unione per il Mediterraneo, che ha fornito un’opportunità politica che prima mancava (Mario Rino Me, Notre Espace Maritime Commun , Revue de Défense Nationale , Hors série maggio 2008 e Le Défi Méditerranéen, RDN giugno 2010. Sfortunatamente, durante il suo sviluppo, l’UpM è stato declassato da progetto di Unione a Unione di Progetti).

Le istituzioni sono fondamentali per assicurare la continuità; per dirla con Jean Monnet: “senza gli uomini non si può fare nulla , ma senza le strutture non cé nulla di duraturo” (Cyprian Brood bank, Il Medit dalla Preistoria all’età Classica, Einaudi 2015 , pag 477 “Diventa plausibile che Sardi non siano stati ad aspettare che il Mediterraneo venisse da loro, ma che alcuni gruppi lo affrontassero attivamente viaggiando fuori dall’isola”).

Il suddetto insieme poteva spingere i suoi membri ad adottare un ruolo più attivo e far pendere la bilancia. Infine stiamo per celebrare il ventesimo anniversario degli Accordi di Dayton del 1995, che posero fine alla guerra sanguinosa guerra nei Balcani occidentali. Uno scenario simile a quello definito a Dayton si sta affacciando all’orizzonte.

*Ammiraglio di Squadra. Docente di Politica Militare al Centro Alti Studi per la Difesa
** il testo originale , in inglese sarà pubblicato su n° 12-2015 dell’Osservatorio Strategico del Centro Militare Studi Strategici

***Foto. Mosaico Museo del Bardo, Tunisi

2 Comments

  1. ho una domanda da fare all’ammiraglio Me.
    Per caso era imbarcato su Nave Todaro con il com.te Donvito?se la risposta è positiva mi farebbe piacere contattarlo.
    Grazie

  2. Mario Rino Me

    Caro Augusto. Durante la frequenza della Scuola [di]Comando Navale sono stato imbarcato su Nave Visintini . Ho condiviso con il com.te Donvito uno dei miei tre periodi su Nave Ardito (lanci missilistici di qualificazione , SQT, e crociera in Centro-Sud America -Caraibi . se ben ricordo abbiamo condiviso un periodo di imbarco sul CT Geniere . Mi farà piacere riprendere i contatti (3899824972). Amitiés
    Mario Rino

Lascia un commento