I mass media, Gramsci e la costruzione dell’uomo eterodiretto [di Paolo Ercolani]
filosofiainmovimento.it. Con l’evoluzione della «società dello spettacolo» sta maturando il passaggio da una forma di dominio sui corpi a una sulle menti. L’individuo, sotto attacco nella sua sfera intellettiva, rischia di perderela capacità di agire consapevolmente e di essere soggetto della storia. «Nella realtà sociale, nonostante tutti i cambiamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo è rimasto il continuum storico che collega la Ragione pre-tecnologica a quella tecnologica» (H. Marcuse) (1) Se uno degli ambiti di studio e azione più importanti della filosofia marxista è consistito nell’analisi delle forme di dominio del più forte sul più debole, la grande intuizione di Antonio Gramsci, e quindi uno dei suoi lasciti più fecondi, risiede nell’aver compreso come, con il Novecento, il terreno su cui si svolgevano – e si sarebbero svolte – le nuove forme di dominio non era più dato dal solo contesto strutturale, ma avrebbe interessato la sovrastruttura ideologica (2). In forme e con modalità certamente non osservabili (e quindi prevedibili) in tutta la loro potenzialità ai tempi del pensatore sardo, ma che sono sotto gli occhi di tutti nei giorni nostri in piena epoca di trionfo della società dello spettacolo, con i suoi meccanismi tecnologici annessi (3). Con l’elaborazione del nesso fra teoria e pratica, tra pensiero e azione, in buona sostanza tra filosofia e politica, Gramsci non soltanto superava quel marxismo meccanicistico che concentrava la propria attenzione sul solo momento strutturale (di contro al problema opposto rappresentato dall’Idealismo), ma poneva le basi per un recupero della centralità dell’uomo (e della sua dignità) come soggetto pensante e agente (inscindibili i due momenti) e, in quanto tale, soggetto consapevole e «creatore della sua storia» (4). All’interno di questo discorso si comprende l’intento gramsciano perché al nesso fra teoria e azione (o tra filosofia e politica) corrispondesse quello tra «intellettuali» e «semplici»: innanzitutto affinché i primi sapessero elaborare dei principi coerenti con i problemi che le masse si trovano a porre con la propria attività pratica, al fine di costituire un «movimento filosofico» che non svolgesse «una cultura specializzata per ristretti gruppi di intellettuali», ma che fosse in grado di trovare nel contatto costante coi semplici «la sorgente dei problemi da studiare e risolvere». Soltanto in questo modo una filosofia si «depura» dagli «elementi intellettualistici» e si fa «vita» (5). Il nesso fra teoria e pratica, o tra filosofia e politica, insomma, era fondato sulla prolifica unione di pensiero e azione, con la finalità di evitare un’elaborazione teorica e una prassi politica che, se separate, si allontanassero dalle questioni reali e concrete della società umana. Ma anche per scongiurare quel distacco tra intellettuali e masse popolari che, specialmente con la Prima Guerra Mondiale, aveva finito col ridurre le classi subalterne a recitare il ruolo di «materiale umano» o «materiale grezzo» per la storia delle classi privilegiate (6). Il recupero della centralità dell’uomo, in quanto capace di elaborare un pensiero che si traduca inazione e lo configuri come soggetto consapevole della società e della storia, è quanto oggigiorno appare più a rischio di fronte agli sviluppi di una tecnologia massmediatica che, se da una parte fornisce l’illusione dell’«onnipotenza informativa», dall’altra produce individui sempre meno in grado di pensare autonomamente e di agire consapevolmente, sempre più isolati all’interno di quattro pareti e davanti al video di un computer. Computer che, per molti aspetti, finisce col pensare e agire al posto degli uomini stessi, producendo non soltanto degli effetti deleteri sulle facoltà precipue dell’individuo, ma minando anche quelle possibilità di relazioni e azioni sociali che rappresentano il nerbo della polis umana (7). L’odierna società della comunicazione, che ha ormai assunto le fattezze della società dello spettacolo descritta da Debord, sta contribuendo alla costruzione di un uomo sempre più isolato ed eterodiretto e, in quanto tale, sottoposto a forme di dominio nella dimensione sovrastrutturale che gli rendono impossibile, o peggio sterile, ogni possibilità di azione concreta ed efficace nel campo sociale (8). La natura sociale dell’azione. Dopo un periodo in cui fu predominante la tesi che negava questo ed altri tipi di influenza dei media sull’uomo, nel 1981, significativamente sulla Annual Review of Psychology, compare un saggio pressoché ignorato dalla stampa e dalla comunità scientifica americane. In questa pubblicazione, dai toni peraltro misurati, viene lanciato un messaggio di profonda importanza per i professionisti e gli studiosi della comunicazione, volto a rimarcare «la straordinaria influenza e il potere esercitati dai media sul modo di percepire, di pensare e in ultima analisi di agire delle persone nel proprio mondo» (9). Concentriamoci su quest’ultimo aspetto. L’azione fa parte della dimensione umana, rappresenta un punto fondamentale tanto quanto la percezione e il pensiero e, anzi, potremmo dire ripensando a Gramsci, ne costituisce la naturale proiezione nel campo sociale. Se è vero che «tutte le attività umane sono condizionate dal fatto che gli uomini vivono insieme», scriveva la Arendt, è ancora più vero che «soltanto l’azione non può essere neppure immaginata al di fuori della società degli uomini». Essa soltanto costituisce una «prerogativa esclusiva degli uomini», di cui né una bestia né un dio possono essere capaci (10). È nell’agire, quindi, un agire cosciente e razionale proprio perché preceduto da una corretta percezione e da un libero pensiero, che la natura dell’uomo si rivela «sociale», imprescindibile dalla presenza di altri individui e dalla cooperazione con essi al fine di costruire una società libera e capace dimettere al centro l’uomo e i suoi bisogni. Ma per «agire» in questo senso sociale e politico, occorre che i cittadini siano interessati all’azione stessa, «impegnati» nel valutare con la propria testa e in maniera critica i limiti e le incongruenze della società di cui si trovano a far parte. Ora, ai nostri giorni esiste un’ampia letteratura che ha studiato lo straordinario sviluppo tecnologico e strutturale dei mezzi di comunicazione di massa, arrivando a un generale consenso sul fatto che in riferimento ai mass media delle società industrializzate, questi sviluppi allo stato attuale non hanno contribuito né a creare democrazie più robuste né formare cittadini più «impegnati (engaged citizens)» (11). Se da una parte, quindi, è assai agevole documentare le rivoluzioni che le nuove tecnologie informatiche e comunicative hanno operato rispetto a tutte le sfere della nostra vita, tanto che c’è chi arriva a qualificarle come «costitutive» della modernità stessa (12), dall’altra rimangono non poche perplessità rispetto alla loro capacità effettiva di potenziare la democrazia. Con particolare riferimento a Internet, per esempio, si possono riscontrare alcuni elementi che vanno in direzione contraria: Tanto i mass media sono diventati elemento centrale delle nostre società moderne e della vita quotidiana di tutti noi, si potrebbe dire, tanto balza agli occhi il loro effetto disimpegnante e omologante sulla nostra identità di cittadini facenti parte di una comunità. Tale effetto si ripercuote sull’assetto democratico delle nostre società, su quella che, in accordo con quanto stabilito da Habermas e prima ancora da Dewey, viene chiamata «sfera pubblica» e che è fondata sulla componente cruciale dell’«interazione» fra individui liberi, interessati alla res publica: senza una libera discussione fra i cittadini, scrive uno studioso del rapporto tra sfera pubblica e mass media, la stessa definizione di «pubblico» diviene senza senso (14). Da questo punto di vista la società della comunicazione crea molti motivi di preoccupazione per le sorti della democrazia. Facciamo riferimento ad analisi che documentano come la cultura dei media in generale, con la sua enfasi sul consumo e sull’intrattenimento, ha tagliato l’erba sotto ai piedi a quel tipo di cultura pubblica che è richiesta per una democrazia in salute. Più specificamente il giornalismo contemporaneo è spesso accusato di sovvertire i valori democratici nella trattazione delle vicende politiche, per via della sua sempre crescente commercializzazione, per il sensazionalismo, la trivialità, tutti elementi che conducono a due risultati: 1) da una parte il giornalismo (e la cultura dei media in generale) contribuisce al generale ammutolimento della cittadinanza (che non è più in grado di intervenire su questioni trattate inmaniera tanto enfatica e iperbolica, quanto poco fornita di contenuti effettivamente informativi); Né queste critiche possono essere limitate al giornalismo tradizionale (su carta stampata o su radio e telegiornali), poiché anche le modalità politiche ed economiche che caratterizzano l’informazione su Internet suggeriscono che il suo sviluppo sta rapidamente deviando verso quel tipo di «commercializzazione» (ossia banalizzazione ad uso e consumo di masse disimpegnate) che già da tempo caratterizza il modello dei media tradizionali (16). Cittadini passivi. I mass media che producono cittadini disimpegnati e disinteressati alla sfera pubblica, media dietro ai quali vi sono poteri forti di natura economica e politica, finiscono col ritagliarsi anche un ruolo esclusivo rispetto alla formazione dell’opinione pubblica. Più l’individuo, per tutte le ragioni viste finora, perde la propria autonomia di giudizio e le proprie facoltà intellettive ed esperienziali, più questo stesso individuo perde la capacità di incontrarsi coi suoi concittadini per «dibattere», «organizzarsi» e «mobilitarsi» su questioni di interesse collettivo (17), più alla fine verrà lasciato ai media e a chi vi sta dietro la facoltà di formare l’opinione pubblica e di dirigerla secondo interessi di natura economica o, comunque, privata: «Al giorno d’oggi – scriveva Sartori vent’anni addietro – sono i mass media a giocare il ruolo più grande e centrale nel formare l’opinione pubblica […] Il mondo, per larga parte del pubblico, si riduce al messaggio veicolato dal media» (18). Cittadini di questo tipo, resi passivi ed eterodiretti, sono le vittime preferite dei poteri economici (che spesso e volentieri controllano i media), che si trovano così di fronte «consumatori passivi» dei loro prodotti, cervelli meccanicamente predisposti all’acritica accettazione del prodotto, come del messaggio, imposto da qualcun altro. Si tratta di un meccanismo che aveva già colto McLuhan, analizzando il fenomeno della pubblicità (advertising) e riscontrando come essa si fondi «sull’avanzatissimo principio per cui anche la più piccola parte di un motivo o di uno schema, se ripetuta in modo rumoroso e ridondante, finirà gradualmente per imporsi. La pubblicità spinge il principio del rumore fino al livello della persuasione, sistema che corrisponde pienamente alle procedure di lavaggio del cervello (brain washing)». E proprio l’assalto all’inconscio potrebbe essere la ragione che sta dietro al meccanismo della pubblicità, è la deduzione di McLuhan: «Per dirla brutalmente –concludeva infatti lo studioso dei media – l’industria pubblicitaria è un rozzo tentativo di estendere i principi dell’automazione a ogni aspetto della società» (19). Del resto, come mirabilmente descritto e anticipato da Orwell in 1984, la società della comunicazione si sta sempre più rivelando come quel sistema capzioso e sottile in cui viene finalmente conquistato anche «l’ultimo santuario», la mente umana, tramite meccanismi terrificanti ed efficacissimi quali il lavaggio del cervello, la persuasione subliminale e il controllo narcotizzante: in altre parole, per dirla con Sartori, una vera e propria «realtà totalitaria» fondata su un «sistema unicentrico di produzione dell’opinione» (20). Ad accostare società della comunicazione e totalitarismo era stato lo stesso McLuhan, laddove evidenziava che mentre «la minaccia di Hitler o di Stalin era una minaccia esterna», «la tecnologia elettrica entra dentro le nostre case e noi assistiamo intorpiditi (numb), sordi, ciechi e muti al suo incontro con la tecnologia di Gutenberg, sulla quale e attraverso la quale si è formata l’american way of life» (21). Se i mass media, e gli interessi forti che li controllano, sono in grado di stravolgere e controllare le nostre capacità di percezione e pensiero, il nostro modo di agire (o non agire) nella società, manipolando le nostre menti fino a renderle atte ad accettare passivamente messaggi, informazioni e financo prodotti, utili ad alcuni interessi particolari e non a noi stessi o al bene comune della società in cui viviamo, è evidente che si pone il problema della democrazia. Non a caso gli autori succitati tirano in ballo il totalitarismo, ossia quel sistema che è considerato antipodico rispetto ai modelli democratici che conosciamo nel nostro benestante Occidente. Mai come oggi, nelle nostre società occidentali così apparentemente libere, è doveroso stare in guardia e ricordare l’insegnamento di Platone, il quale era ben consapevole che è proprio dalla democrazia che può nascere, attraverso un processo di degenerazione, la tirannide (22). Evidentemente non c’è e non può esserci esercizio effettivo della libertà quando i mezzi di comunicazione di massa, nel senso specifico che «massificano» l’individuo, o che «portano all’ammasso» non solo l’intelletto, ma anche la sensibilità dell’uomo, esprimono tutta la loro potenza non solo di informazione, ma anche di «formazione»: l’uomo perde in questo modo la propria autonomia, finendo con l’essere ridotto alla stregua di un «minorenne» eterodiretto, incapace di servirsi autonomamente della propria ragione e del proprio sapere, comunque subordinato ai meccanismi di una tecnica che, seppure figlia dell’uomo stesso, progredisce in maniera più veloce rispetto alle capacità umane di assorbirla (23). Ecco perché i rischi sono quelli di un nuovo totalitarismo, ancora più insidioso e totalizzante in quanto proveniente dai sottili meccanismi di funzionamento di una società in superficie democratica, che non perde occasione per ribadire la centralità dell’uomo e dei suoi bisogni, ma che in realtà finisce col ridurlo a mezzo e strumento per interessi economici e di potere. Una forma di totalitarismo che, in aggiunta, si rivela ancora più completa in quanto unisce i due aspetti che finora erano stati attribuiti ai regimi liberticidi moderni: la capacità massificante e omologante unita a quella atomizzante ed estraniante. Ritorno a Gramsci. L’universo dei nuovi media, pensiamo in particolare a Internet, massifica l’uomo in quanto ne omologa i gusti e le facoltà di percezione e pensiero, nel momentostesso in cui lo atomizza poiché, fornendogli l’illusione di poter entrare in comunicazione col mondo intero e con un numero illimitato di persone (e di informazioni), lo tiene in realtà chiuso tra le quattro pareti di casa propria, sempre più disabituato a coltivare rapporti diretti e ad incontrarsi con altri individui per dibattere, ragionare ed eventualmente organizzarsi (24). Siffatto individuo, esposto alle forze omologanti e isolanti esercitate dai nuovi mezzi di comunicazione, finisce col venire «eterodiretto» fin dal suo rapporto più ordinario con i più elementari meccanismi di funzionamento dei mass media: nella vita reale l’uomo è libero di seguire in maniera indipendente i propri processi di associazione, mentre, per esempio nell’interazione col computer, con i rimandi ai vari link gli viene di fatto richiesto di seguire delle «associazioni pre-programmate», in altre parole di seguire «la traiettoria mentale del programmatore» (25). Ecco allora che, a distanza ormai di quasi un secolo, si pone su un piano ulteriore (mutatis mutandis) la discriminante già vista, quella fra il «credere, obbedire, combattere» della propaganda fascista e quanto proprio Gramsci scriveva come epigrafe all’OrdineNuovo: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza!». Riferimenti bibliografici: Note: 25. Manovich (2001: 61) |