Gravidanza surrogata o utero in affitto [di Giagu Ledda]

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Un artìcolo sulla gravidanza surrogata o utero in affitto, pubblicato qualche giorno fa da un giornale della penisola e firmato da una persona che apprezzo, mi ha fatto riflettere e scrivere queste due righe, da cittadino laico e medico. Questa pratica la si può chiamare in molti modi; in termini medici è definita un “utero surrogato” e si tratta di un accordo, un contratto scritto, tra due parti: una donna che accetta l’impianto nel suo utero e di portare a termine la gravidanza, di un embrione formato da ovuli e spermatozoi di altre persone, che rappresentano l’altra parte giuridica del contratto, a cambio di un compenso economico. La donna fa dunque da incubatrice perché possa nascere un bambino che non sarà il suo, mai.

Questa tecnica è stata portata a termine in umani per la prima volta circa quaranta anni orsono per risolvere casi di sterilità dovuti a diverse cause o patologie; oggi si servono di questa tecnica anche coppie con fertilità normale o persone di ambedue i sessi che desiderano essere genitori ed è diventata un commercio, redditizio, per molta gente. Si calcola che nella sola India ci sia un giro di affari di più di 500 milioni di dollari.

Lascio ad altri la definizione di gravidanza e maternità surrogata, le differenze semantiche fra i due termini, e la richiesta di un quadro legale per questo tipo di pratiche. Il nocciolo del problema è un altro. Un argomento a volte impiegato per difendere questa pratica è quello che vorrebbe presentare come collaborazione alla nascita l’affitto del corpo di una donna, mettendo in un secondo piano il rapporto economico, l’unico rapporto esistente tra le due parti, la “conditio sene qua non”. Velo di altruismo per ricoprire uno sfruttamento sociale.

E perchè negarsi all’uso di una pratica che le nuove tecnologie ci permettono? chiederebbe qualcuno. Ma è proprio l’esistenza di queste nuove tecnologie, fra altre cause, ad aumentare le distanze tra chi le possono far servire e chi ne è escluso. La gravidanza surrogata o utero in affitto presenta dei problemi di bioetica, rispetto ai medici che le applicano, o più semplicemente di etica, dottrina che riguarda tutti, problemi che convergono tutti nella domanda che si pone la gente: chi è la mamma di un figlio nato da questo contratto e seguendo questa tecnica? Il paragone sulla similitudine della donna che affitta il suo utero per concepire una creatura d’altri con altre maniere di sfruttamento del suo lavoro come donna, non regge.

È certo senz’altro che esistono donne che per poter lavorare sono obbligate ad accettare la loro sterilità o a concedersi ai desideri sessuali di chi procurerà loro un lavoro. L’esistenza di questi abusi, vere pratiche di tortura sulla persona, e sulla donna in particolare, non possono servire da scusa per giustificare una posizione etica contraria ai diritti umani qual è quella che ammette l’affitto di un organo.

Gli argomenti a favore della gravidanza surrogata trovano il loro fondamento nella libertà di riproduzione che possiede la donna, nell’autonomia di ogni persona di poter scegliere quando, come e con chi dare origine a una nuova vita. Questa autonomia e libertà, fondamenta della decisione di ciascuno, sono estese alle donne che vogliono affittare il loro utero.

L’uomo è persona per la capacità che possiede di darsi una legge morale; il suo essere persona consiste nell’essere soggetto morale autonomo, che si autodirige quindi. L’autonomia è parte dell’essenza umana, ne guida ogni azione, anche se a volte (o molte volte) l’uomo, autonomo per definizione, può compiere delle scelte non autonome. Ciò che a noi ora interessa non è tanto l’autonomia teorica di ogni persona, quanto la decisione autonoma di ogni azione che essa compie. Un’azione è compiuta con autonomia quando il soggetto è capace di intendere ciò che fa e valuta le conseguenze prevedibili e possibili di questa azione.

Altra condizione perché l’azione che si compie sia autonoma, è la totale assenza di qualsiasi condizionamento esterno, in forma di raggiro, inganno, imposizione, obbligo o altra forma di costrizione. Ed è proprio la pressione della domanda di utero surrogato che provoca nei paesi con estrema miseria l’offerta di donne che affittano il proprio utero come soluzione alla povertà. Gli stati hanno pensato, mediante leggi, a rendere legali queste pratiche. L’esistenza di una legge però non da loro legittimità; la legittimità a un’azione, a una pratica, la da il fatto che questa sia un atto etico.

Le donne che affittano il proprio corpo, in India, in Tailandia e altri paesi asiatici, sono di bassa estrazione sociale, spesso analfabete, spinte ad affittarsi da rappresentanti di cliniche senza alcuno scrupolo, mossi unicamente dal guadagno economico. Regna la legge del mercato: negli Stati uniti d’America, questa pratica, legale, viene a costare circa 100.000 dollari, in India bastano 25.000.

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani fa riferimento alla libertà come premessa alla decisione di creare, o non, una vita. La povertà, i bisogni di ogni genere, diminuiscono l’autonomia della persona, la sua libertà, nuociono alla sua dignità e ne condizionano le scelte. Quando la decisione di una donna di affittare il proprio utero, e il suo corpo, è dovuta alla necessità di soldi per nutrire i propri figli o aiutare la famiglia, possiamo affermare che si tratta di una decisione presa in totale autonomia e libertà? La donna obbligata a questo non sceglie di sottoporsi a questa violenza, a questi abusi dei più potenti su popolazioni più deboli. Questo tipo di pratiche degrada la dignità umana del bambino e della donna che l’ha portato al mondo, trasformandoli in oggetti di consumo con un prezzo imposto dal mercato. La donna è una vittima.

P.S. Questo articolo è pubblicato nella rivista Limba Sarda 2.0 in originale in lingua sarda e da questa tradotto in italiano per SardegnaSoprattutto

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