Diversamente madri? [di Veronica Rosati]

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Qualche giorno fa il sito web de L’Espresso ha riportato una lunga riflessione di Michela Murgia sul delicatissimo quanto complesso tema della “gestazione per altri”, conosciuta con espressioni come “utero in affitto” o “maternità surrugata”. Il pezzo ripropone in maniera unitaria l’opinione, esposta in più riprese, della scrittice. Chiunque si approcci ad una simile tematica ha la sensazione che sia stato detto ormai tutto e il contrario di tutto. Un vero e proprio mare di parole. Opinioni personali si confondono con malcelate ideologie. Le facili strumentalizzazioni finiscono per mercificare fedi, dottrine, sentimenti e, non in ultimo, la libertà individuale.

In tutto questo Michela Murgia riesce a mettere ordine. Lo fa con grande chiarezza, soprattutto per le donne. Ne definisce, in primo luogo, la terminologia. È corretto parlare di “gestazione per altri” anziché di maternità surrugata. Semmai può trattarsi di una gravidanza surrugata. La maternità è ben altro. Lo abbiamo imparato in Accabadora. Una donna che rimane incinta e partorisce un figlio non è automaticamente una madre. Questa è una conquista civile recente, frutto di decenni di lotte femministe. Le donne hanno smesso di essere ciò che sono state per secoli: madri per forza. L’essere madre cessa di essere un destino collettivo ed è una scelta individuale. Libera.

I contrari alla “gestazione per altri” ricorrono alla dottrina cattolica per difendere la loro posizione. La domanda principale è: è lecito ricercare la vita, nonché un figlio ad ogni costo? Per i cattolici la coppia eterosessuale, coniugata, dove entrambi sono fertili, senza malattie gravi trasmissibili e fisicamente in grado di portare avanti gravidanza, è legittimata ad avere figli. Tale situazione, con dei paletti così stretti, è decisamente categorica. Qualora un elemento venisse a mancare, un cattolico dovrebbe accettare il suo destino e la volontà di Dio optando eventualmente per l’adozione.

Entro questo orizzonte, Michela Murgia ritiene che il desiderio di una vita può essere molto più forte di una dottrina. Spiega come sia stata proprio la dottrina cattolica “ad aver posto la maternità come supremo marcatore della femminilità compiuta”. Non mancano episodi biblici che narrano di eclatanti casi di “gestazione per altri”. Uno su tutti: Sara, moglie di Abramo, nella Genesi si rivolge al marito “Ecco, il Signore mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli”.

Il desiderio di avere un figlio è del tutto naturale. Viene dal profondo e scuote emozioni, sentimenti e relazioni. Non è importante concentrarsi su quanto si desideri un figlio, ma sull’aspetto pratico. Vale a dire sugli steps che si è disposti a compiere per avere quel figlio. Nello specifico, se le opzioni più attuabili non andassero in porto ci si trova faccia a faccia con la domanda: “fino a che punto posso usare il corpo di un’altra donna per ottenerlo?”.

Di questi tempi non è affatto scontato ricordare, come fa la scrittrice di Cabras, che può esistere una realtà, uno stato di cose o modi di vivere diversi dai nostri. Continueranno ad esistere, anche se li giudichiamo inaccettabili. Negare ciò che è diverso da noi non semplificherà il mondo. Ciò non è soltanto una faccenda etica, ma è una questione di diritto, di giustizia. Urge una regolamentazione legislativa in materia di “gestazione per altri”. Questo non solo per renderla legittima, ma per tutelare la libertà di ogni elemento coinvolto. Non è corretto dimenticare i diritti acquisiti come quelli tutelati dalla legge sull’aborto o di rinuncia alla potestà.

Se esiste il diritto ad interrompere una gravidanza indesiderata, deve esistere anche quello a portare a termine una gravidanza desiderata da altri e portata avanti per qualcun’altro. L’aspetto economico che caratterizza la relazione della “gestazione per altri” è intimamente connesso alla libertà, nonché all’emancipazione delle donne. È la povertà a spingere una donna a partorire un figlio per qualcun’altro. Non si può trattare di una compravendita, ma di un dono. La donna ha diritto di cambiare idea. Fino all’ultimo.

È necessaria una regolamentazione della materia per non far vincere le leggi di mercato, per impedire una corsa scellerata delle ricche coppie sterili nelle zone più povere del mondo. É uno sfruttamento evidente. Un po’ come accade per la badante rumena che lascia i figli a casa per poter lavorare per i nostri anziani. È anche questo un problema di povertà.

Nessuno stipendio potrà mai ricompensare quello a cui stanno rinunciando. Uno sfruttamento come quello delle donne italiane, spesso costrette alla sterilità per poter conservare il proprio posto di lavoro. Il problema etico della remunerazione della “gestazione per altri” va arginato, compreso e regolamentato. Esiste perché esiste la povertà. O la si risolve o ne limitiamo i danni. Solo con delle regole legislativamente stabilite la donna potrà essere libera e vedrà tutelata la sua dignità.

Ogni madre sa che c’è qualcosa di straordinario nel legame che si stabilisce con il proprio figlio, sin dai nove mesi della gravidanza. Quel bambino lo terrà per mano, finché non spiccherà il volo. Diventerà uomo o donna, uguale ad altri. Non importerà più la genesi del concepimento, se saranno stati bimbi cercati o arrivati per caso, da genitori che si amavano o da una donna che li ha solo partoriti. Li immagina in uno stabile equilibrio fra fede e progresso scientifico, in una società multietnica e tollerante. Ogni madre, però, spera siano uomini o donne davvero liberi.

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