La Tunisia e il suo futuro [di Valentina Porcheddu]

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il manifesto del 5 febbraio 2016. Intervista. Hmaid Ben Aziza, rettore dell’università di Tunisi e membro del «Quartetto per il dialogo nazionale tunisino» insignito del Nobel per la Pace 2015, racconta le conquiste ottenute dal paese con la “Rivoluzione dei Gelsomini”, il perdurare del malcontento sociale che ha generato le ultime proteste e il rischio che la “lotta al terrorismo” venga strumentalizzata: «La politica della paura non è mai stata una soluzione»

Venerdì 29 gennaio si è svolto a Cagliari, presso la Fondazione Banco di Sardegna che ha promosso l’evento, un incontro con il «Quartetto per il dialogo nazionale tunisino», formazione insignita del Nobel per la Pace 2015 in virtù del suo contributo alla transizione democratica del paese dopo la cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini del 2011. Al convegno erano presenti – in qualità di delegati del «Quartetto» – Houcine Abassi, segretario generale dell’Unione Generale del Lavoro Tunisina (Ugtt), il rettore dell’Università di Tunisi, Hmaid Ben Aziza, e quello dell’Università di Cartagine, Lassaad El Asmi. In quest’occasione, il manifesto si è intrattenuto con Ben Aziza su alcuni temi di attualità.

Lo scorso 16 gennaio, il giovane Ridha Yahyaoui è rimasto folgorato a Kasserine dopo essersi arrampicato a un palo della luce per protestare contro la sua condizione di disoccupato. Questa vicenda ricorda l’immolazione di Mohamed Bouazizi che il 17 dicembre 2010, a Sidi Bouzid, diede inizio alla cosiddetta «rivoluzione dei gelsomini». Le proteste seguite alla morte di Yahyaoui in diverse città della Tunisia fanno presagire una seconda rivoluzione?

Non c’è una rivoluzione tutti i giorni ma ciò che sta accadendo è un campanello d’allarme per i politici. Prima del 2011, il popolo tunisino viveva nell’oppressione. Con la caduta di Ben Ali, abbiamo fatto delle conquiste sul piano delle libertà ma permane un deficit economico che influisce pesantemente sullo stato sociale. Le persone che si trovano in condizioni di necessità assoluta non possono che rivoltarsi. Dalle sollevazioni di queste ultime settimane a Kasserine e in altre città del sud come Gafsa, Tozeur, Gabes e Médenine emerge inoltre con prepotenza il problema della disuguaglianza fra regioni. Nella nuova Costituzione (promulgata nel gennaio 2014, ndr) esiste la «segregazione positiva», vale a dire la priorità accordata alle aree sottosviluppate. In Tunisia, su ventiquattro governatorati, quattordici hanno bisogno di un «piano Marshall», di investimenti, infrastrutture e opportunità per il tempo libero. Le risorse, e dunque la ricchezza, sono concentrate sulle coste ma non possono esistere «due Tunisie» e il governo deve assumersi la responsabilità di un programma di sviluppo delle zone svantaggiate. Un’altra lezione da trarre dalle nuove sommosse è che in politica tutto può essere rimesso in discussione. Più che una seconda rivoluzione, occorre cercare gli elementi per portare avanti la prima.

Houcine Abassi, segretario generale dell’Ugtt, ha affermato che benché la democrazia tunisina sia fragile e vada protetta, trova inopportuno l’atteggiamento di molti governi esteri che dissuadono i loro cittadini dal recarsi in Tunisia. Per Abassi, si tratterebbe di un vero e proprio boicottaggio in quanto i morti degli attentati di Parigi del novembre 2015 che superano di gran lunga le vittime degli attentati al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse avvenuti anch’essi lo scorso anno, non hanno sortito lo stesso genere di «disposizioni». È d’accordo con tale considerazione?

Il terrorismo è un fenomeno internazionale e la Tunisia resta un paese aperto e accogliente. Dietro il danneggiamento del settore turistico ci sono delle vite distrutte e non dobbiamo nascondere che ci sono paesi interessati a incentivare atti terroristici sul nostro territorio. Per questo la lotta al terrorismo, nella quale anche noi siamo impegnati, non dev’essere strumentalizzata. La politica della paura non è mai stata una soluzione. E non si può, ogni volta, avanzare quest’argomento come fa l’estrema destra in Europa quando – ad esempio – accomuna l’immigrazione al terrorismo.

A proposito di immigrazione, come giudica il dibattito europeo intorno all’abolizione dello spazio Schengen?

La tensione permanente tra la libertà, i diritti dei popoli e la sicurezza è una delle maggiori difficoltà del presente. Anche la sicurezza è un diritto fondamentale delle persone e la situazione attuale può spingere a modificare le regole del trattato di Shengen. Tuttavia, non comprendo la condotta di alcuni paesi. Penso alla Polonia, che ha assestato la sua transizione democratica proprio grazie all’Europa ma oggi si posiziona contro con leggi anti-progressiste e mettendo a tacere stampa e società civile. L’Europa è innanzitutto una sfera di libertà e diritti, è un «pacchetto» non discutibile, non si può prendere solo ciò che interessa o conviene ai governi, anche se è ciò che – di fatto – sta succedendo.

Nel 2012, l’Università della Manouba di Tunisi ha subito assalti da parte di gruppi islamisti che volevano istituire delle moschee all’interno del campus. Contemporaneamente, si riaccendeva il dibattito sul «niqab» (velo integrale, ndr), fino ad allora vietato nei luoghi pubblici. A distanza di quattro anni, questi «conflitti» sono stati risolti?

Ci battiamo quotidianamente per convincere gli studenti che l’Università ha una tradizione di libertà e tolleranza. Il fondamentalismo, infatti, porta i giovani a concentrarsi su falsi problemi. La nostra Costituzione garantisce la religione ma anche l’aspetto civile della società. Il dramma è che durante il governo della Troika siamo stati invasi dagli cheikh dell’Arabia Saudita, che pretendevano di insegnare ai tunisini l’Islam e diffondevano le loro ridicole fatwa. Nell’Università di cui sono rettore e nella quale insegno Filosofia, siamo costretti a spiegare alle studentesse di ingegneria che non possono indossare il velo integrale durante le esercitazioni perché l’uso scorretto di alcune macchine derivato dalla scarsa visibilità potrebbe pregiudicare persino la loro vita. Quella degli integralisti è una comunità chiusa mentre noi dobbiamo sforzarci di riportare l’attenzione sull’individuo.

Nel suo intervento ha citato lo scrittore franco-libanese Amin Maalouf, autore del libro Les identités meurtrières (2001) e rivolgendosi ai numerosi studenti magrebini che partecipano al programma «ForMed» (progetto pluriennale della Fondazione Banco di Sardegna che consente ad un centinaio di studenti della sponda sud del Mediterraneo di studiare negli atenei sardi, ndr) ha detto che – rispetto agli incontri fra civiltà – sia la «troppa identità» che la «troppa differenza» sono valori negativi. Come immagina, dunque, il tunisino del futuro?

Lo immagino in armonia con il mondo e con la religione. I musulmani, infatti, stanno perdendo l’opportunità di una rivoluzione che li tenga al passo con i tempi. All’indomani dell’indipendenza, in Tunisia, c’era grande entusiasmo perché – così come avviene oggi – si costruiva un paese. Il tunisino di domani deve apprendere a vivere nel suo paese e riappropriarsi della cultura del lavoro.

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