Diseguaglianza e democrazia. Intervista a Branko Milanovic [di Nicola Melloni]

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MicroMega on line 13 febbraio 2016. Nell’intervista che presentiamo, Branko Milanovic, uno dei maggiori esperti di diseguaglianza economica, riflette sull’impatto politico dell’allargamento di quest’ultima nei paesi occidentali. Quale democrazia, dunque, in una realtà economica sempre più diseguale?

Branko Milanovic è Visiting Presidential Professor alla City University di New York, ed in passato lead economist presso il centro di ricerca della Banca Mondiale. È uno dei maggiori esperti di diseguaglianza economica, autore di numerosi libri tra cui World Apart (2005, Princeton), The Haves and Have-Nots (2010, Basic Books, tradotto in Italia dal Mulino, “Chi ha e chi non ha”), e, di prossima uscita, di Global Inequality: A New Approach for the Age of Globalization (Harvard, 2016). Nel suo seguitissimo blog, http://glineq.blogspot.ca, tratta di temi legati alla diseguaglianza e alla politica contemporanea. Con Micromega ha parlato del suo prossimo libro, dell’importanza della diseguaglianza economica nel discorso politico corrente e dei problemi del capitalismo globale.

Vorrei iniziare parlando dell’importanza assunta nel dibattito pubblico dal tema della diseguaglianza economica. Sono anni che te ne occupi, eppure questo argomento è stato al più marginale tanto in accademia quanto in politica – anche e soprattutto a sinistra che dovrebbe essere la parte più attenta alle questioni sociali. Poi, tutto d’un tratto, con lo scoppiare della crisi, la diseguaglianza ha assunto una centralità fino a poco tempo prima imprevedibile, ne parlano tutti i giornali, ne discutono senza paura i candidati democratici alla Casa Bianca. Cosa pensi sia cambiato?

Data la natura della domanda, devo dividere in due la risposta. Partiamo prima dal perché tutto d’un tratto la diseguaglianza è divenuta un argomento così discusso. A me pare chiarissimo che l’origine di questo cambiamento sia stata la crisi economica. Sono i fattori materiali che influenzano la vita della gente, ed il modo di pensare: la diseguaglianza non è un fenomeno nuovo, anzi, ma per 25 anni la classe media ha potuto mascherare la mancanza di crescita del reddito attraverso l’accesso al credito, indebitandosi.

Con la crisi però questa bolla è scoppiata, e tutto d’un tratto milioni di persone hanno realizzato quale fosse la loro condizione materiale, hanno cominciato a sentire il peso delle perdite: l’economia era in recessione ed i salari si abbassavano; soprattutto i debiti non potevano essere ripagati, in particolar modo quelli per la casa – non dimentichiamo che in America il debito privato era maggiore del PIL.

Questo shock economico è divenuto anche culturale, in molti hanno cominciato a capire che per tanti anni la crescita non li aveva minimamente toccati, e che, al contempo, c’era invece una classe di persone, il famoso 1%, o se vuoi il 5%, che si era arricchita a dismisura. Quindi, il motivo che ha scatenato questo interesse per la diseguaglianza è stato proprio la mancanza di crescita e la comprensione che l’assenza della crescita non valeva per tutti; e che in passato qualcuno era diventato molto ricco mentre per tanti altri l’economia stagnava.

E questa “scoperta” ha avuto un impatto notevole, ha colpito la coscienza della gente, ne ha aumentato la consapevolezza ed ecco perché la diseguaglianza è divenuto un tema così popolare. Penso che la rilevanza avuta da Occupy qui negli Stati Uniti, dagli Indignados in Spagna e naturalmente da Syriza in Grecia sia il risultato di quello shock.

La seconda parte della risposta riguarda il perché prima della crisi la diseguaglianza non fosse un tema politico rilevante, soprattutto a sinistra. La risposta è semplice: non c’era più nessuna vera sinistra pronta ad imbracciare il tema. Nel corso degli ultimi decenni, la sinistra si è spostata al centro, in alcuni casi, e penso soprattutto alla Spagna, è divenuta centro-destra. In termini tecnici, se si dovesse tracciare una linea usando i parametri politici degli anni 70, il PSOE di adesso sarebbe stato allora un partito di centro-destra.

Lo stesso si può dire delle politiche del partito socialista francese, e naturalmente dell’Italia dove i Democratici sono ex-comunisti ormai stabilmente nel campo della destra. Questi partiti non si ponevano nessuna domanda sulla diseguaglianza, seguivano l’approccio neo-classico, una versione annacquata del thatcherismo, che non contemplava proprio argomenti del genere. Questo è, dunque, il motivo per cui tale argomento politicamente sensibile veniva ignorato. Poi con la crisi c’è stata una forte disillusione, soprattutto tra i giovani, riguardo tanto il modello economico che la rappresentanza politica ed ecco perché abbiamo avuto tutti questi sviluppi interessanti negli ultimi anni.

Rimaniamo su questo tema più strettamente politico. Quello che dici è che la sinistra ha smesso da tempo di fare sinistra, e dopo la crisi abbiamo avuto nuovi movimenti in Spagna, in Grecia. Ma non altrove. In Italia c’è il Movimento 5 Stelle che sembra preoccuparsi di più della corruzione della politica che della diseguaglianza economica. Più in generale, in quasi tutti i grandi paesi europei, quella che era la vecchia sinistra non sembra aver veramente ripensato il suo ruolo. Il rischio, mi pare, è che queste nuove istanze legate alla fase successiva alla crisi non vengano dunque rappresentate.

In realtà questo ragionamento ha un difetto – pensa alla rappresentanza dei ceti sociali colpiti dalla crisi solo in riferimento alla sinistra. Al contrario, gli sconfitti della crisi possono tranquillamente trovare una rappresentazione politica a destra. Ed è proprio quello che sta succedendo. Nell’Europa mediterranea, per il momento, c’è uno spostamento a sinistra, col governo socialista in Portogallo e con Syriza, e con l’incognita Podemos. Il resto dell’Europa però si sta muovendo a destra: è una destra diversa da quella thatcheriana, che fa del problema dell’immigrazione il suo cavallo di battaglia, che è più protezionista, è xenofoba, e contro la globalizzazione.

La diseguaglianza quindi sta diventando un tema di aggregazione del consenso sia per la sinistra (radicale) che per la destra, mentre i partiti centristi vengono progressivamente schiacciati. Sarò onesto, non capisco davvero quali ragioni possano portare un elettore giovane, o anche di mezza età, in Francia, a votare per Hollande. Cosa rappresentano i socialisti in Francia? Seguono le politiche della destra a livello domestico, si comportano da imperialisti “liberali” in politica estera. Allora tanto vale votare per Sarkozy, almeno è l’originale, non la copia. Per quanto poi riguarda l’Europa dell’Est non è rimasta neppure l’ombra di un partito di sinistra.

Naturalmente, si tratta in parte di una reazione alle circostanze storiche: come in Grecia o in Spagna c’è stata una sinistra forte dopo decenni di dittature semi-fasciste, nell’Europa dell’Est c’è ora una reazione ai regimi comunisti che furono al potere dalla fine della Seconda Guerra Mondiale all’89. Se guardiamo alle ultime elezioni in Ungheria e Polonia, c’è solo la destra. A Varsavia, addirittura, dopo le ultime elezioni, la sinistra non ha più nessuna rappresentanza istituzionale.

Quindi la crescente importanza del tema della diseguaglianza non porta automaticamente ad una svolta a sinistra; può benissimo essere appropriato dalla destra. E’ un processo che possiamo vedere anche in USA: certo, l’insoddisfazione per la crisi va ad infoltire il numero dei supporter di Bernie Sanders; ma anche di Donald Trump. Ed in Europa, è Marine Le Pen, in fondo, a beneficiare di questo nuovo clima politico.

In parallelo al cambiamento provocato nel discorso politico, il tema della diseguaglianza è divenuto una componente cruciale del dibattito anche nel mondo accademico, soprattutto tra gli economisti. In realtà anche lì, per decenni, la diseguaglianza era un argomento di ricerca quasi ostracizzato. Il pensiero neo-classico che ha egemonizzato lo studio della materia ignorava completamente il tema: quello che conta è l’efficienza dei mercati, e la crescita, ed ogni tentativo di ridurre le diseguaglianze economiche rischia di peggiorare proprio l’efficienza. Era in fondo l’idea del “trickle down effect”, la crescita arricchisce i ceti più abbienti – i capitalisti – ma poi discende pian piano per tutta la scala sociale. Eravate in pochissimi a studiare la diseguaglianza. Ora le cose sono cambiate e, soprattutto dopo l’uscita del libro di Piketty, il Capitale del XXI Secolo, sono sempre di più gli economisti che parlando di diseguaglianza, che è diventato anche un tema di politica economica. Cosa è successo?

Partiamo dal principio: perché la teoria economica non studiava la diseguaglianza. Le ragioni sono molto chiare: in un modello di concorrenza perfetta, le diseguaglianze sono semplicemente il risultato delle diverse dotazioni iniziali che ogni agente ha quando è sul mercato. Da una parte, non si parla mai di come si formano i prezzi di capitale e lavoro perché sono i prezzi di mercato, e quindi sono dati; dall’altra le dotazioni sono considerate esogene al modello, e quindi non sono parte dello studio micro-economico. Una variabile come il potere è completamente estranea ai modelli neo-classici. Il risultato è che la diseguaglianza deriva meccanicamente dalle impostazioni teoriche del modello – se hai poco capitale o un livello educativo basso è un peccato ma non è un fattore d’interesse e di studio.

Per di più, anche la distribuzione funzionale del reddito è di poco interesse, perché empiricamente sappiamo che la ripartizione del prodotto nazionale tra capitale e lavoro è più o meno stabile. Rimaneva solo la distribuzione personale del reddito, di cui si occupava una piccolissima minoranza di studiosi – e non si capiva neppure bene di che parte della scienza economica questa ricerca facesse parte, era come far ricerca nel vuoto, non vi erano neppure le categorie scientifiche per definire il contenuto dello studio. In questo, Piketty è molto importante perché dà una chiara lettura analitica: partiamo dalla teoria della produzione e della crescita, analizziamo la distribuzione funzionale del reddito e da lì poi passiamo alla distribuzione personale del reddito.
C’era però un’altra ragione, tutta politica, per questa marginalità. Ogni studio sulla diseguaglianza, ovviamente, mette in discussione le strutture portanti non solo dell’economia ma del mondo in cui viviamo, e queste non sono domande sempre ben accette. Come ho scritto nel mio libro “Haves and Have-Nots”, era molto, molto difficile ottenere un qualsiasi tipo di finanziamento per ricerche sulla diseguaglianza.
All’inizio della mia carriera, in Yugoslavia, ero in una situazione simile a quella in cui poi mi trovai alla World Bank ed in Occidente. In entrambi i casi, l’idea portante è che abbiamo un sistema perfetto e non va messo in discussione – in psicologia si chiama “system justification”, il bisogno di difendere approcci che giustificano l’esistenza e la giustezza di quel sistema.

Ma ora sembra esserci un cambiamento. C’è molta più ricerca, c’è molto più dibattito. Cosa è successo? C’è stato un cambiamento politico che ha permesso questa trasformazione? È tutto legato al successo di Piketty?Cosa è cambiato rispetto a prima? È una combinazione di fattori.

In primo luogo, quello che sta avvenendo, è un cambiamento epocale anche nella scienza economica. Come dicevo in precedenza, questa ha sempre, o quasi, ignorato le relazioni di potere e usato l’“agente rappresentativo” come centro del proprio impianto teorico. Si tratta di un punto fondamentale perché la presenza dell’agente rappresentativo nega in fieri ogni forma di eterogeneità, si prende sempre la media dei dati che vogliamo studiare. Lo studio della diseguaglianza è ovviamente in totale contrapposizione con questo modo di ragionare, d’altronde la diseguaglianza non esiste se non c’è eterogeneità. Ora, però, abbiamo un accesso ai dati senza precedenti, e quindi abbiamo una rivoluzione in termini di eterogeneità ed un tipo di studi più ampio e dettagliato che coinvolge naturalmente anche lo studio della diseguaglianza. Con i dati, abbiamo molte più informazioni e quindi maggiori possibilità di ricerca.

La seconda parte della risposta, naturalmente, è politica – ci sono, ora, forti interessi politici e sociali legati a questo tema. Piketty non è un fattore esogeno, ma arriva sull’onda di queste proteste, di questa presa di coscienza di milioni di persone che esiste un problema di distribuzione del reddito. Questi due fattori insieme, la teoria economica, ed un movimento tettonico dell’opinione pubblica, stanno portando ad un cambiamento importante. E quindi è inevitabile che ci sia una reazione anche da parte del mainstream, istituzioni e think-tank non possono rimanere immobili davanti ad un fenomeno così importante, non possono ignorarlo. Addirittura il Peterson Institute for International Economics, che è finanziato da banche commerciali a Washington, si è messo a studiare, e piuttosto seriamente, il tema della diseguaglianza. Anche alla World Bank è la stessa cosa – fino a cinque anni, il termine diseguaglianza non era molto ben visto, mentre ora ci sono studi su studi che se ne occupano.

Per il momento abbiamo parlato di diseguaglianza nei paesi occidentali, ma allarghiamo un attimo la prospettiva. Il tuo nuovo libro tratta di globalizzazione, e ho visto una ampia discussione sui tuoi dati che mostrano come negli ultimi 30 anni, gli aumenti di reddito sono stati quasi totalmente assorbiti dal famoso top 1%, e da una classe media globale, composta soprattutto da cinesi ed indiani che ha visto il proprio reddito aumentare vertiginosamente. Mentre i perdenti della globalizzazione sono stati soprattutto la classe media ed i lavoratori occidentali. Che considerazioni possiamo trarre da questi dati?

Ovviamente non c’è mai nulla che sia completamente positivo o negativo, ci sono sempre dei trade-off, qualcuno che guadagna e qualcuno che perde. Quello che possiamo dire è che in una prospettiva globale è possibile che siano di più quelli che guadagnano di quelli che perdono; o che quanto guadagnato dai vincitori sia più di quello perso dagli sconfitti, e quindi una situazione in cui a livello generale abbiamo un risultato positivo od in cui il reddito medio si è comunque alzato.

I dati mostrano che la globalizzazione è stata senza dubbio uno dei fattori principali di questo cambiamento nella distribuzione del reddito. Ovviamente non è l’unico, ci sono anche il cambiamento tecnologico e quello politico. Ma non possono essere separati dalla globalizzazione. Lo stesso cambiamento tecnologico – a prima vista una innovazione neutra – non avrebbe potuto sviluppare a pieno i suoi effetti senza la globalizzazione. Lo stesso, certo, possiamo dire anche per i cambiamenti politici: se torniamo indietro a quello che discutevamo prima, a come i socialisti abbiano smesso di essere sinistra, non possiamo non notare quanto forte sia stata la spinta della globalizzazione.

Basti pensare ad un tema come la tassazione: a causa della facilità di spostamento del capitale non era semplicemente più possibile tenere un livello di tasse alto e ci si è quindi dovuti adeguare a questi cambiamenti strutturali. Allo stesso modo, le politiche del lavoro in Germania sono state dettate principalmente dal capitale tedesco, sotto la minaccia di delocalizzare in Repubblica Ceca o in Polonia.

I dati più interessanti che possiamo vedere a livello globale sono appunto i tre che menzionavi, crescita della cosiddetta classe media globale, soprattutto in Cina, zero crescita per la classe media dei paesi sviluppati, ed infine, guadagni molto elevati per la parte più ricca della popolazione. E’ una cosa positiva? Si può certamente dire di si, centinaia di milioni di poveri sono ora meno poveri, mentre chi ha perso, la classe media occidentale, era comunque relativamente prospera. Ma non sarebbe una risposta soddisfacente per la politica occidentale, né tantomeno per i lavoratori che hanno perso tanto in questi anni.

Quello che dici però può anche essere usato, ed è usato, come una sorta di validazione della bontà della globalizzazione neoliberista; uno dei mantra ricorrenti è che le politiche del Washington Consensus, in fondo, hanno funzionato e contribuito allo sviluppo del Sud del mondo. In realtà molti dei guadagni nella cosiddetta classe media globale si sono registrati in Cina ed in India, dove è quantomeno discutibile che il successo sia tutto frutto delle politiche occidentali, e non invece di quelle del governo cinese, per esempio.

Sì, certo, si può cercare di usare questi dati per proclamare il successo delle politiche neo-liberali ma, appunto, la Cina è un paese che difficilmente può essere catalogato come neo-liberale. Tutto il contrario, anzi: il sistema legale è tutt’altro che trasparente, vi è moltissima corruzione, i diritti di proprietà non sono ben definiti, il settore pubblico è tuttora molto esteso, e ci sono serie limitazioni alla libertà di movimento dei lavoratori. L’unica cosa che hanno in comune la Cina e le politiche neoliberali è l’apertura al commercio internazionale, ma gli arrangiamenti istituzionali sono completamente diversi.

Naturalmente questi aspetti vengono spesso taciuti, perché per i ceti più abbienti che hanno guadagnato moltissimo dalla globalizzazione è utile far passare il messaggio di come queste politiche abbiano aiutato innanzitutto i più poveri. Come dicevo, però, questo non può essere sufficiente a livello politico, perché l’élite deve ora confrontarsi con uno scontento crescente. Quando Reagan o la Thatcher costruivano il consenso per la svolta neo-liberale non lo facevano certo spiegando che queste politiche avrebbero arricchito i poveri cinesi, e che i lavoratori inglesi o americani nel frattempo avrebbero perso il proprio lavoro.

Quali sono nella tua opinione le prospettive future? Ci sono fattori strutturali interessanti. Da una parte la crescita dei salari in Cina, potrebbe rendere meno conveniente la delocalizzazione e quindi far perdere impulso alla globalizzazione. Inoltre, secondo il Professor Goodhart, di LSE, la differenza principale verrà dal trend demografico. Negli ultimi cinquant’anni abbiamo avuto una popolazione che si è accresciuta moltissimo e questo ha portato ad una eccessiva offerta di lavoro che ha fatto scendere i salari. Con la stabilizzazione della popolazione, il trend nel rapporto Capitale-Lavoro è destinato ad invertirsi e così quello della diseguaglianza. E’ anche vero però che dall’altra parte, siamo alle porte di un nuovo avanzamento tecnologico e, con l’imminente robotizzazione di molte industrie, ci sarà sempre minore bisogno di lavoro. Cosa ci aspetta nel prossimo futuro?

È una domanda complessa. È vero che in Cina è in corso una transizione demografica che vedrà raggiungere il picco della popolazione nei prossimi dieci anni; in India però, per esempio, il trend è diverso, e l’apice di crescita sarà tra almeno mezzo secolo. Al contempo abbiamo una crescita della popolazione molto rapida in Africa. Il picco di crescita della popolazione, secondo alcune stime, sarebbe di 11 miliardi di abitanti. In ogni caso si tratta di un tema molto complesso. Nei prossimi due secoli, la popolazione probabilmente si sarà stabilizzata e con il capitale molto abbondante, possiamo avere una situazione riguardo all’ineguaglianza opposta di quella attuale. È una ipotesi ragionevole, ma di lunghissimo periodo.

Quanto alla rivoluzione tecnologica, la robotizzazione, non sono così pessimista come altri: in tutte le occasioni di cambiamento tecnologico ci sono sempre state paure riguardo una possibile disoccupazione di massa, ma non è mai accaduto. Il problema è la nostra capacità di immaginazione – conosciamo solo le tipologie di lavoro già esistenti, e non quelle possibili nel futuro. Vediamo i robot prendere i lavori “classici” e quindi temiamo per il futuro, ma non sappiamo come sarà, questo futuro. Per farti un esempio, quando venni negli Stati Uniti, molti anni fa, mia madre mi accompagnò, soprattutto durante il periodo la guerra in Yugoslavia: non riusciva a capire cosa fossero i lavori della gente che conoscevo. Sapeva cosa fosse un calzolaio, un dottore, ma un hedge fund manager, per lei, era una cosa sconosciuta. Adesso ci sono tutti i lavori nell’IT, le start-up, cose che ancora pochi anni fa non esistevano.

Quindi che trend vedi riguardo la globalizzazione e la diseguaglianza?

E’ un tema che tratto nell’ultima parte del mio libro – non penso che sia possibile fare delle previsioni. In generale, quando si fanno previsioni, si prende un numero e lo si mantiene stabile per venti anni, ma naturalmente le cose cambiano, e le previsioni lasciano il tempo che trovano. In generale, però, quello che vedo è che alla Cina succederanno probabilmente altri paesi (quelli dove la crescita demografica è più forte), e questo significherà una ulteriore convergenza tra paesi poveri e ricchi, quantomeno nei prossimi cinquant’anni. In Occidente, però, questa convergenza dei salari sarà un tema politicamente scottante, perché si tradurrà in assenza di ogni vera crescita salariale nei paesi sviluppati. La diseguaglianza a livello globale scenderà, come già succede ora, soprattutto per il processo di crescita di alcuni paesi asiatici, ed alcune nazioni africane. La componente di classe della diseguaglianza, all’interno di ogni paese, però, è destinata ad accrescersi. Nei prossimi due o tre decenni è possibile che ci siano sempre più conflitti nazionali sul tema della globalizzazione e della distribuzione del reddito.

E questo naturalmente ci porta al tema della relazione tra diseguaglianza e democrazia. Come dici, quello che vediamo è una stagnazione dei salari che riporta d’attualità i conflitti di classe. Si potrebbe anche pensare che sia la stessa democrazia ad essere a rischio: democrazia vuol dire stessi diritti politici e non stesso reddito, ma sappiamo bene come il potere economico possa distorcere i meccanismi di rappresentanza. Pensi che questa crescente diseguaglianza economica possa mettere a rischio la democrazia occidentale?

È una domanda molto complessa, troppo, ma possiamo provare a descrivere ciò che ci troviamo davanti. Il dato di maggiore interesse è che, nonostante una crisi economica di inusitata durezza, non abbiamo visto alcuna vera e significativa crescita dei movimenti anti-sistema. Anche lo stesso Front National rimane comunque all’interno di una cornice democratica. Forse piuttosto Erdogan, in Turchia, e Putin, si avvicinano ad un modello di superamento della democrazia, ma questo per il momento non sta avvenendo nell’Europa Occidentale. E sono anche piuttosto scettico riguardo la capacità di partiti come il FN di tener fede alle promesse elettorali a cominciare dall’uscita dall’Unione Europea, per esempio.

Naturalmente non possiamo essere sicuri di tutto ciò, già se la Gran Bretagna uscisse dalla UE si aprirebbero nuovi scenari e molte cose potrebbero cambiare. Quello che penso è che nei prossimi anni sicuramente aumenterà la tensione tra i partiti che vogliono una risposta populista alla situazione di crisi – ad esempio Trump, qui negli Stati Uniti – e che si oppongono alle ondate migratorie, alla globalizzazione in senso generale, che reclamano protezione per le industrie nazionali ed intendono usare la politica monetaria per svalutare e competere contro i propri vicini (beggar thy neighbour, in gergo). E, dall’altra parte, ci saranno sempre più partiti plutocratici che, ora più che mai, avranno bisogno di ridurre il potere degli strati più poveri della popolazione, che sono in numero sempre maggiore – e questo porterà ad una ulteriore centralità del denaro nel determinare le scelte politiche.

Ciò che sta succedendo negli Stati Uniti è molto interessante, da una parte abbiamo Trump che porta il peso del suo patrimonio personale in politica, il perfetto oligarca; dall’altra però il candidato ideale per i ceti più abbienti è Hillary Clinton, che è il vero difensore dell’establishment. Quello che vedremo dunque è che si farà il possibile perché gli operai, o i neri, o comunque i ceti più disagiati, non votino. Di fatto abbiamo al momento questi due movimenti, da una parte continuare sulla china attuale, globalizzazione e vantaggi soprattutto per il top 5%, la trasformazione graduale della democrazia in plutocrazia, e, per citare Gramsci, l’egemonia di questo pensiero e di questi interessi; e dall’altra la crescita di movimenti di destra anti-globalizzazione.

Questo soprattutto in Europa e nel mondo occidentale, mentre altrove la situazione è diversa. In America Latina c’è un ritorno della destra, ma, credo, si tratti più di un normale ciclo politico; non sappiamo cosa succederà in Asia – in India ora c’è un governo apertamente di destra, mentre in paesi come Cina o Indonesia o Tailandia, la divisione tra destra e sinistra classiche è molto meno accentuata che in Occidente.

I rischi però non sono solo politici. Secondo molti economisti, tra cui Robert Reich, la crisi economica è stata soprattutto figlia della diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Più in generale si pone il rischio di una domanda troppo debole a fronte di una eccessiva concentrazione del reddito.

Le soluzioni ci sono, anche se non sono facilmente realizzabili. Ad esempio, io penso che, a causa della globalizzazione, come dicevo prima, una tassazione maggiore per i ricchi o sui redditi da capitale sia molto difficile da implementare – se anche un paese decidesse di aumentare le tasse, se anche fossero decine i paesi a farlo, ve ne sarebbero sempre altri pronti ad ospitare i capitali in fuga. Le politiche del futuro, a mio parere, vanno in un’altra direzione, verso una distribuzione più equa delle dotazioni economiche, in particolare del capitale.

D’altronde, se come dice Piketty, è la proprietà del capitale a determinare redditi maggiori, è in quel campo che bisogna intervenire. Mi riferisco, in particolare, all’istruzione, garantendo ritorni economici più simili tra persone con qualifiche simili – differentemente da oggi dove, a parità di numero di anni all’università, chi esce da Harvard ha una aspettativa di reddito almeno dieci volte superiore ai laureati di altre università meno prestigiose. Equalizzando la qualità dell’istruzione si otterrebbe una deconcentrazione del capitale, al momento detenuto nelle mani di pochi. Allo stesso tempo, sarebbe importante diminuire anche la concentrazione del capitale fisico che certo è più difficile – ma non impossibile.

Già in passato abbiamo avuto esempi: dai piani di proprietà azionaria non solo per il management ma anche per i lavoratori; alla co-gestione in Germania, con il ruolo dei sindacati nei consigli di amministrazione; fino alla proprietà condivisa con i sindacati in Svezia. Non è facile, ovviamente, ma mi pare una strada molto più percorribile di quella fiscale, destinata ad essere frustrata dalla globalizzazione che ha reso la capacità di tassare sempre più debole.

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