La strategia dell’Emozione. Fremere anziché riflettere [di Anne-Cécile Robert]

inaudibile

Le Monde Diplomatique/il manifesto Febbraio 2016. Sommario: dalle trasmissioni di intrattenimento all’attualità mediatica, passando per i discorsi dei politici, il ricorso all’emozione è diventato una delle forme obbligate della vita pubblica. Se le emozioni, positive o negative, arricchiscono l’esistenza, questa forma d’espressione può costituire una sfida pericolosa per la democrazia nel momento in cui diventa invadente e tende a sostituire l’analisi

La democrazia è come le rane. Gettata in un pentolone d’acqua bollente, una rana salta fuori d’un balzo, ma se la immergete in un recipiente d’acqua fredda sotto cui sia accesa una fiamma, si lascerà cuocere a fuoco lento. Molteplici fenomeni convergono per «cuocere» insidiosamente la democrazia, senza la tradizionale messa in scena del colpo di Stato, coi militari e gli arresti degli oppositori al suono della radio che trasmette canzoni patriottiche. Come l’innocuo bollore dell’acqua, i disastri provocati appaiono in tutta evidenza solo in seguito a un confronto effettuato a mente fredda. I combustibili che alimentano il fuoco sotto il pentolone sono stati ampiamente descritti in varie occasioni (1).

Mentre ci si è soffermati pochissimo sul ruolo giocato dall’occupazione dello spazio sociale da parte dell’emozione. Fenomeno a cui i media contribuiscono massicciamente senza che se ne possa sempre misurare la capacità di destrutturare la democrazia e la stessa capacità di pensare. Basta digitare «viva emozione» su un qualsiasi motore di ricerca per veder sfilare un’infinità di notizie, dai più banali casi di cronacanera fino agli attentati che hanno insanguinato la cronaca recente da Parigi a Beirut. Così c’è stata «viva emozione» nel mondo in seguito agli attacchi del 13 novembre nella capitale francese, ma anche qualche tempo prima a Petit-Palais-et-Cornemps dopo l’incidente dell’autobus che è costato la vita a 43 persone (FranceTV info, 24 ottobre 2015), a Calais in occasione della demolizione dell’edificio che ospitava il vecchio ospedale (France 3, 20 novembre 2015) o ancora a Epinac, paese d’origine di Claudia Priest, rapita nella Repubblica centrafricana all’inizio del 2015 (Journal de Saôneet-Loire, edizione di Autun, 21 gennaio 201 5). Ed era ugualmente viva, alla fine dell’anno, «per Brigitte, finalmente inquilina di un appartamento che ha potuto arredare grazie alle associazioni di assistenza del Mont-Doré» (Les Nouvelles Calédoniennes, 6 gennaio 2016).

Folle mute di marce bianche Potremmo protrarre all’infinito una lista di esempi che non è governata da alcuna gerarchia oltre a quella del sentimento, vero o presunto, delle popolazioni e di coloro che le osservano. Ma i media non sono i soli a spingere sul pedale dell’emozione. I dirigenti politici fanno altrettanto, in particolare quando si tratta di mascherare la propria impotenza o di giustificare, come se fossero frutto della fatalità, le misure che si accingono a prendere. Questo accade in materia di emigrazione, dove la precauzione oratoria è di rigore prima di lanciarsi nell’arzigogolata illustrazione dell’impotenza europea. Da François Fillon, deputato del partito Les Républicains, al primo ministro Manuel Valls, «intollerabile» è stato l’aggettivo più utilizzato per definire l’immagine del piccolo rifugiato siriano Aylan Kurdi, senza vita su una spiaggia turca, il 2 settembre 2015, dopo di che si è deciso di non fare niente per prosciugare le sorgenti della disperazione migratoria.

Su un registro meno tragico, i commentatori hanno sottolineato «l’emozione» del ministro degli affari esteri Laurent Fabius che ha siglato, con la voce incrinata, un accordo tuttavia fragilissimo, altermine della 21a conferenza delle Nazioni unite sul clima (Cop21) a Parigi (2). Infine, davanti ai sindaci di Francia, il 18 novembre 2015 il presidente François Hollande è incorso in un lapsus rivelatore evocando «gli attentati che hanno “ensangloté” la Francia» (mettendo, cioè insieme il verbo insanguinare e singhiozzare, ndt). Schermo dell’impotenza o della vigliaccheria politica, il ricorso all’emozione può avere drammatiche conseguenze immediate.

Eric Dupont-Moretti, avvocato di Loïc Sécher, ha definito un «fiasco dovuto alla dittatura dell’emozione» l’errore giudiziario di cui è stato vittima il suo cliente. Sindaco di un piccolo comune e medico, Sécher era stato accusato di stupro da suo nipote. Dopo anni di detenzione, si è visto scagionare dalla testimonianza del ragazzo – oggi ventenne – che ha riconosciuto di essersi inventato tutto. Come nel caso Outreau, la giustizia ha incontrato enormi difficoltà a ritornare su una sentenza sbagliata, decisa sotto l’effetto di racconti tanto sensazionali quanto fantastici e della preoccupazione più che legittima di tutelare i minori dai maltrattamenti.

Le semplificazioni mediatiche, il culto del «tempo reale», i social network, non incoraggiano certo la serenità in questioni così delicate. Al di là degli incidenti di percorso politico-mediatici, l’emozione è divenuta uno dei principali meccanismi dell’espressione sociale e della lettura degli avvenimenti. Persino i dirigenti d’azienda vengono invitati a usare la loro «intelligenza emotiva» come strumento di gestione, mentre i loro dipendenti possono farvi ricorso per ottenere un aumento (3).

Uno dei simboli più eloquenti dell’invasione dello spazio pubblico da parte dell’emozione è il crescente fenomeno delle marce bianche. In gran parte spontanee, queste radunano, in seguito a un incidente o a un delitto particolarmente atroce, folle talvolta immense, in proporzione alle città o ai villaggi in cui si svolgono. La prima ha avuto luogo nel 1 996 in Belgio, in occasione dell’arresto del pedofilo Marc Dutroux.

Sono dette «bianche» perché fanno riferimento alla non violenza e agli ideali di pace. Esse esprimono l’indignazione di fronte ad azioni tanto insopportabili quanto difficili da comprendere. Nessuno slogan né rivendicazione le accompagna. Folle deliberatamente silenziose si muovono, spesso ponendo alla testa del corteo bambini – simbolo di innocenza e speranza nell’avvenire – che talvolta portano delle candele.

Il filosofo Christophe Godin le vede come l’espressione di una «crisi della società» caratterizzata dal «dominio delle emozioni» a cui «questa pratica fornisce un’eco considerevole (4)». Queste processioni contemporanee vanno accostate all’onnipresente valorizzazione della figura della vittima, adornata di tutte le virtù e a cui si rende omaggio incondizionato, senza porsi domande, per un processo di empatia. «Avrebbe potuto toccare a me», ripetono significativamente le persone intervistate a proposito di qualche caso di cronaca nera, incidente o delitto che sia.

Qualsiasi catastrofe si accompagna perciò all’ostentazione teatrale di nuclei di sostegno psicologico. I processi della Corte penale internazionale prevedono ormai appositi spazi di parola per le vittime, senza alcun legame con la necessità della manifestazione della verità nel caso specifico e senza domandarsi se la serenità di giudizio venga compromessa dalla scossa emotiva che queste testimonianze, tanto spettacolari quanto inutili, possono provocare.

Il culto della vittima ha trovato in Francia una illustrazione emblematica nel progetto – alla fine abbandonato – del trasferimento al Panthéon dei resti di Alfred Dreyfus, oggetto di una campagna antisemita di rara violenza nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Non si finisce così per confondere vittime ed eroi? Il capitano non ha fatto altro che subire dolorosamente gli eventi e in nessun momento ha agito in maniera tale da distinguersi. Al contrario, il tenente colonnello Georges Piquar, licenziato dal ministero della guerra e radiato dall’esercito per aver denunciato il complotto ordito contro Dreyfus, potrebbe a buon diritto beneficiare dell’attenzione dei “pantheonizzatori” più generosi e raggiungere Emile Zola.

Altro esempio della confusione vittimistica: la scelta di rendere omaggio alle vittime degli attentati di Parigi nel cortile degli Invalides, luogo pensato da Luigi XIV per i soldati feriti al fronte. La cerimonia ha accordato ampio spazio all’emozione, inscenata davanti alle telecamere. Lo psicologo Georges Piquar è giunto al punto di parlare di una società «patofila (5)». La filosofa Catherine Kinzler, dal canto suo, si preoccupa della «dittatura avvilente dell’affettività (6)». L’emozione costituisce una sfida temibile per la democrazia poiché si tratta, per natura, di un fenomeno che pone il cittadino in posizione passiva facendolo reagire invece che agire e appellandosi al sentimento piuttosto che alla ragione.

Sono gli avvenimenti che motivano l’individuo, non il suo pensiero. Le marce bianche non hanno alcuna conseguenza pratica. La giustizia rimane priva di mezzi. La società continua a decomporsi. D’altra parte non si è ancora vista nessuna marcia bianca per il suicidio di un disoccupato o l’omicidio di un ispettore del lavoro. «L’emozione è subita. Non se ne può uscire a proprio piacimento, si esaurisce da sola, ma noi non possiamo fermarla, ha scritto Jean-Paul Sartre. Allorché, essendo sbarrate tutte le vie, la coscienza si precipita nel mondo magico dell’emozione, vi si precipita completamente, degradandosi (…). La coscienza in preda all’emozione assomiglia molto alla coscienza che si addormenta (7)».

Alla «strategia dello shock (8)» individuata da Naomi Klein si deve dunque affiancare una «strategia dell’emozione»? La classe dirigente se ne servirebbe per spoliticizzare il dibattito pubblico e per mantenere i cittadini nella condizione di bambini dominati dai propri affetti. L’emozione abolisce la distanza tra il soggetto e l’oggetto, impedisce il passo indietro necessario al pensiero, priva il cittadino del momento della riflessione e della discussione. «L’emozione si impone nell’immediatezza, nella sua totalità, spiega Claude-Jean Lenoir, ex presidente del circolo Condorcet di Ferney Voltaire. Si impone al punto che tutta la coscienza è emozione, è quella emozione.

L’emozione rimane la nemica assoluta della ragione: non cerca di comprendere, “sente”. Dobbiamo sicuramente questa situazione attuale all’influenza e all’affermarsi dei social network. Distanza? Nessuna. Si “twitta”, si “cinguetta”, a ruota libera. Il senso critico, la cultura, la ricerca della verità, si degradano. Si “lancia”.» Devastazione del tessuto sociale L’esaltazione dell’emozione costituisce in questo modo un terreno propizio agli arruolamenti dei filosofi mediatici sempre disposti a sostenere qualche guerra «umanitaria», come Bernard -Henri Lévy con la spedizione di Libia del 2011 . Ma anche un terreno più favorevole, nel quotidiano, ai meccanismi dello storytelling (9) e alle false evidenze del populismo.

Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2002 l’aggressione contro il pensionato Paul Voise, enfatizzata dai media, aveva suscitato una pioggia di discorsi reazionari sulla «lotta contro la delinquenza». Perciò, nel suo famoso discorso di Dakar del 2008, Nicolas Sarkozy aveva potuto affermare: «Io stesso credo a questo bisogno di credere più che di comprendere, di sentire più che di ragionare, di essere in armonia più che di conquistare…».

Ma la marcia bianca arriva anche per riempire il vuoto lasciato dalle forme di azione collettiva come il sindacalismo o la militanza politica. Non è forse un caso, d’altra parte, che il fenomeno sia sorto in Belgio, nei momenti decisivi della decomposizione dello Stato centrale, e che si sia particolarmente sviluppato nel nord della Francia, dove la deindustrializzazione ha avuto conse guenze devastanti sul tessuto sociale. Di fronte alle sofferenze e ai timori per l’avvenire, l’emozione riumanizza, si oppone al cinismo.

Fa anche bene. Reca sollievo quanto più è condivisa, come nel caso di una marcia bianca o di una cerimonia agli Invalides. Scongiura, per breve tempo, il sentimento pesante dell’impotenza favorendo una comunione, certo un po’ primitiva, di fronte alla durezza dei tempi. «A casa propria, un telespettatore turbato da un delitto o dal massacro di Charlie Hebdo è solo, spiega Godin. La marcia bianca gli consente di condividere la propria emozione. Il fenomeno è evidentemente sociale. E allo stesso tempo molto equivoco». In questo senso, l’emozione così espressa non traduce forse un desiderio confuso di «(ri)fare la società», di riannodare il vincolo sociale? Interrogata sull’assenza di processo rivoluzionario in una Francia tuttavia in piena regressione sociale e politica, la storica Sophie Wahnich spiega (10) che la rivoluzione del 1789 può anche essere analizzata come il risultato di un lungo processo di politicizzazione della società, iniziato in seno alle assemblee comunali dell’Ancien régime.

I francesi avevano preso l’abitudine di discutervi per prima cosa gli affari locali, abitudine continuata in occasione degli avvenimenti legati alla convocazione degli Stati generali nel 1789. La profondità della crisi politica attuale è legata anche al fatto che questo spazio pubblico si è progressivamente dissolto. Se si interpreta quindi la marcia bianca come, in qualche misura, il primo stadio della ricucitura del tessuto sociale, la prospettiva cambia. In questo senso è «implicitamente politica», secondo Godin, che vede in essa una recriminazione implicita contro il potere pubblico che non «protegge più».

Viene in mente che la prima marcia, in Belgio, aveva anche lo scopo di protestare contro l’inefficienza della polizia e della giustizia nella caccia a un criminale che era sfuggito alla loro sorveglianza. Per contribuire alla ricostruzione della democrazia, il processo dovrebbe allora prolungare neltempo i legami stretti sotto l’influsso dell’emozione e condurre alla loro progressiva politicizzazione. La metafora delle due rane ha d’altra parte un contraltare nel racconto di Voltaire a proposito di due di esse cadute dentro una ciotola di latte. La prima si mette a pregare senza muoversi e finisce per annegare, la seconda si agita così tanto e così bene che il latte alla fine diventa burro. Non le rimane dunque che appoggiarsi sulla sostanza ormai divenuta solida per saltare fuori dalla ciotola.

Bibliografia

(1) Si legga ad esempio Jean-Jacques Gandini, «Verso uno stato d’eccezione permanente», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2016.

(2) Si legga Philippe Descamps, «Le pari ambigu de la coopération climatique», La valise diplomatique, 19 dicembre 201 5, www.monde-diplomatique.fr

(3) Cfr. Daniel Goleman, Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, Rizzoli, Milano 201 5. Si legga «La fabbrica del conformismo», Manière de voir, n° 96, dicembre 2007–gennaio 2008.

(4) Christophe Godin, «“La marche blanche est un symptôme d’une société en crise”», L’Obs, Parigi, 26 aprile 201 5.

(5) Jacques Cosnier, Psychologie des émotions et des sentiments, Retz, Parigi 1994.

(6) Catherine Kintzler, «Condorcet, professore di libertà», Marianne, Parigi, 6 novembre 2015.

 

(7) Jean-Paul Sartre, Esquisse d’une théorie de l’émotion. Psychologie, phénoménologie et psychologie phénoménologique de l’émotion, Hermann, Parigi 1938 [trad. it. in JeanPaul Sartre, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano, 2004].

(8) Naomi Klein, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano 2007.

(9) Si legga Christian Salmon, «Una macchina inventa-storie», Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre 2006.

(10) Conferenza pubblica all’università di Nancy, 26 ottobre 201 5. (Traduzione di Cristiana Fanelli)

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