Renzo Laconi e la forza dei simboli [di Carlo Arthemalle]
Il 2 e il 3 marzo, a Cagliari, nell’Aula magna del Rettorato, in via Università 40, verrà ricordato Renzo Laconi nel centenario della nascita da autorità accademiche, uomini politici, storici e costituzionalisti. Intellettuale, politico, parlamentare nei difficili anni del secondo dopoguerra seppe indicare ai Sardi la strada della lotta per uscire dal sottosviluppo. Conobbi Laconi nel 1956. Ero un ragazzo e lui, da un decennio, era il dirigente più rappresentativo dei comunisti sardi. Credo che l’avvenimento più importante della mia vita sia stato quello di essere cooptato tra i giovani di cui seguiva l’evoluzione con impegno e competenza didattica. Per cultura, struttura mentale e ragioni anagrafiche era un uomo diverso dai militanti che avevano vissuto il fascismo nella cospirazione e in galera: duttile, tollerante e rispettoso delle idee e della personalità degli avversari. Chi lo frequentava ricavava immancabilmente l’impressione di star dinanzi a un marziano, a un fenomeno che era stato capace di impossessarsi di tutto il sapere accumulato dall’umanità maturando un’opinione personale su ciascuna idea e su ciascun fatto avvenuto. Non era, di certo, uno che esibiva l’argenteria, ma la sua cultura fluiva da sola, con naturalezza e spontaneità, in ogni discorso e in ogni occasione. Si manifestava soprattutto nelle polemiche, perché Renzo coltivava il vezzo di vincere fuori casa, di battere l’interlocutore usando gli argomenti e il bagaglio culturale dell’avversario. Se questi era un prete sciorinava i dottori della Chiesa, se era un liberale citava Spaventa o Quintino Sella, se era un sardista lo annichiliva rimandandolo agli Acta Curiarum del Regnum Sardiniae. Usava questo artifizio anche in casa propria, quando c’era da tenere a bada i teologi di fede marxista: con lui i classici del pensiero socialista ridiventavano strumenti di lavoro e cessavano di essere la bibbia che non si discute. Laconi era quello che oggi si direbbe riformista, sapeva che in Italia era impossibile l’assalto al Palazzo d’Inverno e che la democrazia era, in fondo, l’unica risorsa per quelli del terzo e quarto Stato. “Gli uomini sono diversi fra loro” – diceva nei comizi – “innanzitutto si dividono in maschi e femmine, e poi ci sono i fattivi e i poltroni, gli intelligenti e gli stupidi …. non è giusto che siano premiati tutti nello stesso modo ….. Ma i bambini nascono tutti uguali” – concludeva – “e noi cesseremo di far l’opposizione a questa società solo quando il figlio dell’industriale e il figlio del bracciante non avranno più un destino irrimediabilmente segnato dalla nascita”. Sapeva parlare; incantava amici e avversari usando lo charme di un fine dicitore, la garbata ironia e, solo se era necessario, lo sferzante sarcasmo. Esercitava il suo fascino anche lontano dai microfoni, nelle ristrette riunioni di partito e nelle discussioni a quattr’occhi con noi giovani, quando abbandonava momentaneamente il ruolo del capo e si calava in quello del fratello maggiore. Non era un bolscevico, non voleva il partito unico e non voleva la dittatura del proletariato. Il dissenso con quei compagni che volevano fare come in Russia era netto anche se, per motivi tecnici, veniva palesato con intelligenza. Lui era convinto che i grandi partiti di massa potessero realizzare il miracolo di convincere tutti gli italiani a riconoscersi con lo Stato che li censiva. “Una cosa che non è riuscita neppure a Garibaldi e neppure alla Chiesa Cattolica”! Diceva. Laconi morì giovane, nel 1967, ad appena cinquant’anni. Morì sul campo, in Sicilia, dove si era recato per un giro di comizi elettorali. La cerimonia funebre fu toccante, la piazza si riempì di bandiere rosse abbrunate e Pietro Ingrao, con la sua voce roca da ciociaro, salutò il compagno Renzo sollevando il pugno chiuso. Nello stesso tempo il fischio lacerante delle littorine della vicina stazione delle ferrovie complementari coprì ogni rumore: la classe operaia diceva addio in quel modo al suo fratello maggiore. Io lasciai la piazza nella millecento guidata da Carletto Nossardi che era stato, per quasi vent’anni, l’ombra di Renzo Laconi in Sardegna: addetto ai compiti pratici, un po’ autista, un po’ guardia del corpo, certamente amico e confidente. Veniva su da una famiglia molto povera e forse, di tutti i suoi parenti, lui era stato il primo ad avere avuto un’opportunità dalla vita. Lo trovai stranamente calmo. “Ho parlato a lungo con Renzo, tempo fa” – mi disse – “mi ha detto che stava per morire e quindi ero preparato”. “Abbiamo parlato anche del mio lavorò” – disse ancora, coll’aria di uno che ha finalmente capito lo scopo della sua vita – “e ora so cosa debbo fare”! Carletto diventò un commerciante e negli anni successivi si occupò solo di vendere elettrodomestici e di comprare case da adibire a sedi politiche per il suo partito. Risparmiando come un carlofortino e pagando puntualmente le tasse, da solo o col concorso delle sezioni interessate, fece a tempo a realizzare una decina di operazioni. Nel corso di una riunione solenne, in occasione della consegna dell’ultima casa acquistata, il partito si impegnò persino ad assegnargli un piccolo vitalizio e per un paio di mesi, infatti, il nostro amico ricevette una piccola somma. Quando, tempo dopo, Carletto provò a chiedere perché la corresponsione di tale vitalizio fosse stata sospesa si sentì rispondere che quelli erano impegni presi dal partito comunista e che il PDS era un’altra cosa. Carletto è morto l’anno scorso e al suo funerale c’erano pochissime persone. Poi un notaio ha informato gli interessati della presenza di un testamento e di un lascito cospicuo: diverse decine di migliaia di Euro e tre abitazioni in Centro storico. Carletto ha nominato suoi eredi universali i “comunisti italiani”, quelli che hanno conservato la falce e martello e il nome in cui lui aveva creduto per tutta una vita ….. Lui era un uomo semplice e ha deciso di fidarsi dei simboli visto che, di questi tempi, è arduo fidarsi degli uomini. |