Aldo Capitini, dall’ “ultimo presente” al liberalsocialismo [di Francesco Capitini]
MicroMega.it 29 febbraio 2016-Il personalismo «religioso» inaugurato da Aldo Capitini, il pensatore italiano più significativo della nonviolenza, lotta sia contro la notte della «retorica», sia contro le insufficienze liberali del crocianesimo, cercando di realizzare, nel «nuovo presente», l’ideale liberalsocialista della «compresenza». Un pensatore inedito. Aldo Capitini è un intellettuale atipico. Si è detto di lui che il suo sentimento religioso lo renderebbe estraneo al linguaggio tradizionale della filosofia. Il suo idealismo non sarebbe equiparabile alla storia speculativa del Novecento, né andrebbe affiancato troppo al neo-idealismo rinnovato dal suo amico Guido Calogero. Alcuni parlano di anti-idealismo capitiniano, di una concezione anomala della prassi accompagnata da un fortissimo afflato spirituale. Di certo andrebbe riferito che la sua diversità filosofica traspare quasi da ogni singola pagina delle sue opere[1]. Egli, al pari di Calogero, si inserisce tra la teorizzazione dell’atto puro di Giovanni Gentile e lo storicismo assoluto di Benedetto Croce. La sua filosofia muove da alcuni punti fermi, tra cui si segnalano la «persuasione», l’«aggiunta», la «compresenza» e l’«omnicrazia». La persuasione esistenzialistica. Capitini si definisce un persuaso. Una parola che acquista il suo sapore filosofico nell’opera La persuasione e la rettorica compiuta nel 1910, sotto forma di tesi di laurea, da Carlo Michelstaedter. Anticipando Martin Heidegger e il tema dell’«autenticità», Michelstaedter studia Parmenide e la filosofia greca. Cerca di approfondire il rapporto tra l’essere e il divenire, tra il «permanere» e la continuazione del vitale. Egli non intende piegarsi ad un mondo condizionato stabilmente da una cifra di mercato o da una regola empirica esposta dalla presunta oggettività delle scienze. L’autenticità è generata, invece, dal cominciamento assoluto dell’individualità che mal si concilia con la fluidità della vita. La vita rende schiavi. La vita, dice Michelstaedter, obbliga al suo rispetto, alla perenne riproduzione di un Dasein stretto tra le maglie di un dopo che lo cerca e un passato che non cessa di visitarlo nelle ore buie. La persuasione è la vita oltre la vita. Se la vita vuole, la persuasione «sospende l’illusione»[2], viaggia oltre la contingenza e corrobora l’«ultimo presente». Contro le regole dello storicismo, Michelstaedter propone un’altra storia, la storia del durevole che travalica il falso presente e che vuole la non-volontà, ovvero il possedimento del me stesso e del mio mondo. Gli uomini intimoriti dalla morte, suggestionati da slogan apparentemente terapeutici, «sacrificano volentieri la loro determinata domanda»[3] e attendono con pazienza un domani migliore. Il domani, al contrario, non può esistere nel senso continuativo, visto che «domani è finito tutto»[4]. Il Tutto, per l’ispiratore di Capitini, si riconduce ad un atto puro: un atto che supera strutture e sovrastrutture, non pensa a Dio, alla Patria o alla famiglia e si riflette in una continuità extra-temporale che esprime l’unico senso esistenziale. L’«ultimo presente» − che Capitini combatterà proponendo un nuovo presente − è il ritrovamento di un se stesso sfinito dalla regia heideggeriana del “si dice“. La persuasione personalistica. Anche la persuasione di Capitini è l’incontro con la vita autentica. Solo che la sua concezione della vita non affoga nell’«isolamento», nel «solipsismo» e nel «relativismo» dell’uomo decadente[5]. La persuasione del filosofo perugino è un atto di valore assoluto che salva l’uomo dall’inganno e lo inserisce in un contesto religioso purificato dall’incontro voluto con l’altro. La fine del nichilismo, in Capitini, emerge dalla consapevolezza che oltre al me stesso vi è un “tu” idoneo a nobilitare l’approccio della persuasione. Essere persuasi, dunque, significa spendere la propria vita a beneficio del prossimo[6]. Il nostro prossimo non è tanto un diverso da me che si stacca dalla folla e merita di essere riconosciuto sul piano etico. L’altro è subito un’essenza dell’Uno-Tutti. Sostenerlo, appoggiarlo, sentire il brivido dell’empatia nell’istante in cui mi dedico religiosamente alla sua biografia, vuole dire realizzare un atto puro perché allontana la realtà così com’è. L’esempio più chiaro del suo storicismo non assoluto lo offre il suo impegno contro il fascismo. Gli Elementi di una esperienza religiosa del ’37, pubblicati con Laterza su indicazione di Croce, costituiscono una sfida religiosa e concreta all’«Impero» mussoliniano. Esso esemplifica in maniera tragica le inquietanti dimostrazioni della fisicità, della naturalità, della prepotenza intellettuale, dell’odio esibito nelle variegate forme razzistiche. Il fascismo, per Capitini, utilizza il lessico dell’annientamento. L’eredità nichilistica verrebbe riassunta da una cultura che disprezza la prospettiva dell’‘altro’ e che mostra fastidio nei confronti delle storie al plurale, delle paure, della sensibilità, dell’intimo, del bisogno di offrire narrative di vita e non di morte. L’aggiunta. L’azione del persuaso è il frutto di una situazione trascendentale che invade la commedia della retorica. La retorica è guidata da tutti coloro che dicono: è bene che ci sia il ricco e il povero, il potente e il debole, così si realizzano occasioni per le virtù, e ne viene, con la varietà, la bellezza del tutto. Nello stesso modo nel mondo della natura esiste un meraviglioso equilibrio ed ordine per cui il pesce grande mangia il pesce piccolo (altrimenti i pesci piccoli sarebbero troppi)[7]. L’atto capitiniano prende il nome di «aggiunta». L’aggiunta è dettata dalla convinzione che la religione dell’uno-tutti non può avvenire completamente. L’uomo non può liberarsi del tutto dalla retorica. Tuttavia, può contribuire a rendere meno indecente il mondo e può vivere la sua persuasione realizzando un atto pieno di umanità. Il filosofo della «compresenza» non vuole allontanarsi dalla scuola moderna e contemporanea dell’immanentismo, ed è per questo che, in diversi passaggi[8], cerca di coprire il dualismo tra il Sollen e il Sein, tra la vita autentica e la storia della retorica. L’aggiunta promuove un ‘di più’ ambizioso e modesto. Rivendica il valore più alto della dignità umana, come d’altro canto sottolinea il rispetto da versare a qualsiasi essere venuto alla Terra. La compresenza. Norberto Bobbio, rievocando il dissidio fra la celebrazione hegeliana del «sistema chiuso su se stesso» e la tensione kantiana verso l’ideale «che è la vera realtà anche se irraggiungibile (il Sollen che Hegel irrideva)»[9], sostiene che l’opera di Capitini si iscrive in quest’ultimo orizzonte. Occorre aggiungere che il noumeno − un segreto nascosto per il filosofo di Kӧnigsberg − Capitini intende scoprirlo, come si vedrà dopo nel confronto con John Rawls. Lo svelamento dell’in sé costituisce l’affermazione della «compresenza». La compresenza è la nitida immagine del sovrasensibile che vuole trionfare su una realtà confusa. La prima realtà, quella vera, è l’evento, la «festa», lo scenario che ospita i semi vittoriosi della persuasione. La seconda realtà, quella falsa, gira a vuoto e disorienta i suoi cinici protagonisti; in quest’ultima situazione si constata un lungo funerale, la notte del mondo, che può essere sostituita solo se qualcuno − il profeta, il persuaso − introduce le condizioni empiriche e trascendentali per risvegliare il «mattino», diffondere la «luce» e i sentimenti di purezza nell’ascolto vivo ed eterno dell’uno-tutti[10]. Il mattino è la significativa speranza della festa totale, della compresenza, il religioso silenzio dell’unità-amore che l’io e il tu ricalcano con fervida passione e reciproca attenzione. L’uomo, sembra di capire dai suoi scritti, può interpretare in maniera positiva il fascino sovrasensibile della compresenza se mosso da due bisogni eticamente inseparabili: quello del dissenso e il bisogno della pace. Col dissenso, egli lotta contro la storia; l’eventuale, anzi se si è per davvero persuasi, l’obbligato e nonviolento trionfo del profeta-educatore sancisce la provvisoria instaurazione del mattino e così si ripristina la prospettiva della pace. La luce è ad esempio simboleggiata dagli istituti moderni della democrazia parlamentare, dal riconoscimento dei diritti individuali se raffrontati alla retorica medievale dell’ancien régime. Ma «non basta!». Non è sufficiente, per Capitini, confermare la lezione del liberalismo moderno, dei trattati di tolleranza e delle nobili conquiste sociali. Occorre andare avanti per far sì che le aggiunte ci avvicinino sempre di più alla festa della compresenza, liberando chi ancora geme. La compresenza è una festa che non si può appagare delle ultime decorazioni, non può cullarsi, per utilizzare un’espressione di Raymond Aron, nella «felice eccezione» delle democrazie occidentali[11]. Nella festa domenicale, ove tutti sono invitati a priori, i temi cruciali della cultura liberale − la competitività, la meritocrazia, le scelte imprenditoriali impiegate dal self-made man – non costituiscono un principio dogmatico; il mercato e le azioni liberiste divengono, in questa lettura, delle situazioni episodiche che non possono esaurire la prospettiva religiosa dell’uno-tutti, in quanto un individualismo meritocratico, condotto dietro l’impulso hobbesiano dell’homo homini lupus, perde di vista la biografia di chi, ad esempio, a scuola non riesce a conseguire buoni punteggi. Nasce così l’egualitarismo sofferto da un autorevole interprete della compresenza come don Milani. Le storie al plurale subirebbero lo sguardo smaliziato degli operatori del mercato che sfuggono al paradigma pedagogico della compresenza per incrementare profitti, per rilanciare il dogma di una Libertà che fortifica il profilo discriminante e naturalistico della storia, quella ambientata nell’«ultimo presente», rifiutando di bruciare il confine che divide i meritevoli da chi non può. La compresenza di Capitini affonda le sue radici nel ‘tu’, ovvero nell’uno-tutti. Essa intende sconfiggere la trama della discriminazione, della falsa giustizia. Non le può interessare il vocabolario adottato dal neo-capitalismo finanziario con le sue leggi economiche e il principio delle «risorse scarse». Contro la dittatura del presente, anzi «dell’ultimo presente» e in risposta alle «false necessità»[12], il linguaggio capitiniano esibisce una libera aggiunta rinforzata dalla persuasione e solidale con il mattino gioioso della compresenza. L’aggiunta, distinta inoltre dagli «atti di crazia» elogiati con sentimento socialdemocratico da Massimo Salvadori[13], è un’azione religiosa che intende colmare un vuoto sancito dalle ore della notte. Solo che la notte, la storia di una vita non liberata, perdura nelle sue storture. Ed è per questo che, nell’ottica capitiniana, servirebbe un’ulteriore aggiunta, giacché al fine di esaurire l’inesauribile – il linguaggio del male − «non basta» l’impegno maturato nel “qui”. Se questa interpretazione è plausibile, il senso onnicomprensivo della compresenza non viene scosso in maniera decisiva dalle singole determinazioni svolte in suo nome. In altri termini, l’aggiunta, per quanto possa essere realizzata mediante uno straordinario afflato spirituale, non coinvolge il Tutto, ovvero i tutti, ogni infermo, ogni mendicante, ogni sofferente. Essa, infatti, si muove su due binari: quello del concreto e quello dell’astratto. Il primo consentirebbe all’aggiunta di risolvere un certo fastidio immanente e sente la vita di un preciso essere umano, oppure di un insetto. Il secondo, la via dell’astratto, si rivelerebbe un momento consequenziale, in quanto la scelta adoperata in favore del concreto − l’aggiunta che vede e rimuove una sofferenza – rifletterebbe in minima parte l’essenza della compresenza, nel senso che un riscontro di liberazione registra ipso facto un progressivo stato di avanzamento dell’uno-tutti. L’omnicrazia. Capitini non è un democratico. Prima facie suona un po’ paradossale questa affermazione. Nell’idea del filosofo perugino, la democrazia è un meccanismo istituzionale di indiscutibile rilievo. La decisione collettiva andrebbe senz’altro premiata a discapito delle esclamazioni autoritarie di un pater familias o di un Duce. Solo che «non basta». Il Tutti della democrazia rappresentativa può anche rispecchiare le doverose intenzioni del suffragio universale, può ospitare il diritto di voto di nuove identità e presentare delle assolute novità sul piano amministrativo. Tuttavia, la cultura democratica si rivela lacunosa. La democrazia ascolta per abitudine la voce muscolare della maggioranza e zittisce in maniera drastica le istanze delle minoranze. Il trono non spetta agli ultimi, ai sofferenti, ai disoccupati permanenti, ai senza nome, ai rinviati a giudizio per crimini non commessi. I ‘lenti’ della scuola, incoraggiati dal già citato e persuaso don Milani, non riescono ad esprimere con efficacia decisionale il loro diritto. La democrazia non può controllare la vita di Tutti. Da questo istituto trapela un’arbitraria divisione, vige una discriminante. La parola di qualcuno, per ragioni consensuali, conterà più di un’altra. Tizio sarà superiore a Caio. Di qui, a partire dal 1944, la nascita dei C.O.S. (centri di orientamento sociale): un tentativo di alternarsi al quadro partitico, promuovendo un centro assembleare da coltivare nelle varie città d’Italia; un modo di render pratico l’abito religioso della compresenza e di differenziarsi dal culto democratico nella sua veste formale, vitale e rappresentativa. Questi centri, da lui ideati, avrebbero dovuto costituire il funzionamento politico dell’omnicrazia. Il loro evidente insuccesso si spiega con la quasi totale indifferenza mostrata dalle istituzioni, dalle forze di partito nei riguardi delle teorie capitiniane. Tra i non persuasi bisogna distinguere la figura di Bobbio. Lo studioso torinese studia con attenzione il profilo teoretico e politico di Capitini. In un documento del ’66, il pensatore laico replica con il consueto scetticismo alla «realtà di tutti» enfatizzata dal suo grande amico. La democrazia diretta, suggerisce Bobbio, è applicabile forse in un territorio non troppo esteso (nella piccola città di Perugia, ma non in una città industriale come Torino); essa, inoltre, non è esente dal rischio dell’indottrinamento, della manipolazione, del particolarismo e del frazionismo[14]. Capitini, però, non ne fa una questione di spazio, di grandezze o di confini. Egli, pare di capire, guarda solo alla dimensione dell’interiorità. La volontà di tutti, che non è affine alla volontà generale e atomistica di Jean-Jacques Rousseau, alberga, con tensione, nei sentieri del persuaso. Nella critica che muove alla religione della chiusura esposta da Pio XII – un pontefice che mette all’indice il suo volume Religione aperta −, il teorico perugino condanna l’idea secondo cui non avrebbe senso istituire un «colloquio» non imperniato su un «comune linguaggio». Capitini sostiene che i comuni valori, presi nel loro principio assoluto, «dovranno risultare, se mai, durante il colloquio, il cui valore e la cui funzione sarà appunto questa, di fare scaturire qualche cosa di comune da provenienze inizialmente diverse»[15]. La democrazia non può giungere a questa finalità perché tende a mantenere lo status quo, ha paura delle radicali trasformazioni, non ammette, con Karl Popper, la narrazione dell’intollerante originario e può fondarsi sulla pace estrinseca, sulla moderazione, o ancor peggio, sull’istituzionalismo dogmatico delle chiese, che prende atto della differenza tra ricchi e poveri, giustificandola come volontà divina. Il liberalsocialismo delle aggiunte. Rivolgendo un rapido sguardo oltreoceano, non sembra che il liberalsocialismo di Capitini abbia una palese affinità filosofica con le prospettive liberal.Solo apparentemente il suo Sollen potrebbe somigliare alla original position che guida Rawls nella sua costruzione normativa di una giustizia come equità. Essa, com’è noto, è sorretta da un «velo d’ignoranza» dalle sfumature kantiane e tramite il quale Nessuno conosce il proprio posto nella società, la propria posizione di classe o il proprio status sociale; lo stesso vale per la fortuna nella distribuzione delle doti e delle capacità naturali, la forza, intelligenza e simili. Inoltre, nessuno conosce la propria concezione del bene, né i particolari dei propri piani razionali di vita e neppure le proprie caratteristiche psicologiche particolari […] Le parti sono all’oscuro della situazione politica ed economica, o del livello di civilizzazione e cultura che la società è stato in grado di raggiungere[16]. Questa parentesi dalla storia è propedeutica, nel linguaggio rawlsiano, ad un «libéralisme égalitariste»[17] manovrato da un ordine seriale o «lessicale» dei principi, secondo cui, per dirla in breve, la libertà liberale precede sul piano qualitativo il tema insidioso della giustizia sociale. Una conclusione per la verità non lontana dagli esiti filosofici e politici raggiunti diversi lustri prima dal Bobbio di Politica e cultura. In ogni modo, Capitini e Rawls leggono in maniera diversa l’ideatore della Critica della ragion pura. Il filosofo perugino, come si è detto, prende spunto dal noumeno kantiano e intende scoprilo, anzi potenziarlo nell’oceano confuso della retorica, nella vita che vive con il ritmo della sofferenza. Egli, più in generale, rifiuterebbe le astrazioni analitiche che caratterizzano la famiglia progressista statunitense. Potrebbe senza dubbio simpatizzare con le critiche suggestive che ad esempio Ronald Dworkin muove al positivismo giuridico in nome di un diritto da prendere «sul serio»[18]; inoltre, al pari di Michael Walzer, condannerebbe l’«effetto dominanza», come non avrebbe difficoltà a sostenere l’«approccio delle capacità»[19] di Amartya Sen. Solo che, ancora una volta, «non basta». Il suo liberalsocialismo è dettato da un’ansia di verità che lo mette soprattutto in comunione con la domanda socratica teorizzata, nel secolo precedente, dal filosofo ceco Jan Patočka. Una ‘nuova’ domanda, per certi versi, fuori dal tempo e iscritta nell’eterno, i cui contenuti riaffiorano in un preciso contesto storico-culturale. Si tratta, nel caso di Capitini, di un contesto caratterizzato dalla forte impronta totalitaria del fascismo e, per converso, rinvigorito sul piano filosofico dal liberalismo metapolitico di Croce. Per comprendere il senso profondo della sua teoria politica occorre dunque confrontarla brevemente con quella crociana. La differenza tra la prospettiva liberale di Croce e il liberalsocialismo difeso da Capitini non può ridursi in un mero scontro politico o ideologico fra due interpreti della cultura italiana. In gioco vi è la fede religiosa. La libertà capitiniana non è la «libertà della storia» elaborata da Croce. In quest’ultimo caso non vi è occasione di tracciare un modello socialistico degno di essere applicato sul piano politico o governativo; la storia, infatti, divora ogni paziente lettura social-comunistica. La storia è senza freno, travolge persino lo storicismo assoluto del filosofo napoletano e nel momento in cui ci si piega alle sue imprevedibili decisioni, come fa Croce, non potrebbe emergere una proposta sistematica finalizzata in ricette solidaristiche. Anche Capitini ama la storia. Solo che quest’ultima non è “qui”, risiede in un luogo metapolitico sollecitato dalla coscienza morale del persuaso. Così quel che vedo, ciò che la volontà di potenza di un divenire naturalistico prepara allo sguardo attento del liberalsocialista, dovrà essere discusso, annullato, sostituito da un’altra volontà di potenza la quale, nel discorso del pensatore perugino, si addolcisce grazie al carattere paradigmatico della compresenza e al suono emblematico di un amore senza barriere. Il suo liberalsocialismo, in parte diverso da quello laico e giuridico rivendicato da Calogero, oltre che ignaro della riforma socialista e liberale avanzata sempre in epoca fascista da Carlo Rosselli [20], non è una riproposizione dell’ideologia liberal-riformista[21]. Non solo. È importante aggiungere che «son option est anti-institutionnelle»[22]: egli non vuole creare carte costituzionali o dichiarazioni formali che inneggino al valore della dignità individuale. Decide infatti di non aderire al partito d’Azione, nonostante le amichevoli insistenze di Calogero, rimanendo lontano dalle strategie diplomatiche e dagli uffici politici. Capitini vuole fondare un nuovo rapporto tra «socialità e libertà»[23]. Il suo liberalsocialismo non si può sceverare dal suo originale approccio speculativo e deve rispecchiarsi nell’atto di aiuto a qualsiasi evento (uomo, animale) che brucia nell’intimo del persuaso. Non voltare le spalle alle tristezze dell’umanità, per Capitini, significa rifondare l’argomento liberalsocialista e conquistare i luoghi dell’autentico. *Francesco Postorino è dottorando in filosofia politica e morale presso l’Università di Messina. Ha approfondito le sue ricerche presso l’Università Paris 1-Sorbonne. Collabora con alcune riviste e quotidiani nazionali. Per Mimesis è in corso di stampa la sua traduzione dell’opera Socialisme Libéral di Serge Audier. Tra le varie pubblicazioni si segnalano: Bobbio et le marxisme («Droit & Philosophie»); Democrazia («Lessico crociano»); De Ruggiero e Antoni: tra la rinascita del Sollen e la riabilitazione dell’individuo («Storia e Politica»). NOTE |