Calabria, non un’altra Italia [di Domenico Cersosimo]

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Calabria, universo estremo. Residuo fisso della grande trasformazione italiana postunitaria. Punto apparentemente più resistente e impermeabile alla modernità economica e sociale. Concentrato disordinato di patologie inestricabili e inguaribili. Una regione che accentua nel tempo i suoi mali, in grado di inocularli nei corpi sani del paese, che guasta economie e tessuti civili, attraverso tortuose geometrie quasi mai completamente afferrabili. Una ferita territoriale immedicabile che rinfocola un fascino narrativo ineguagliabile.

Sono queste le rappresentazioni standard della nostra regione. In Calabria e fuori. In Italia e all’estero. Anche nei racconti aneddotici più rarefatti e magistrali. Anche nelle più succose e pensose analisi sociologiche. Non c’è scampo: il riflesso condizionato incolla al “mistero doloroso”, al “male oscuro” di una terra tetragona alla fisiologia. Meglio: capacità rara di cambiare in peggio, lungo il piano inclinato della progressiva devastazione antropologica e dello smottamento spaziale del male dai minidistretti delle ‘ndrine locali verso Nord, le banche, le borse, i casinò, gli american bar e le sofisticatissime casematte dei circuiti economico-finanziari della nuova globalizzazione.

Iper-arretatezza e iper-modernità sembrano connotare la cifra altera dell’evoluzione calabrese dell’ultimo ventennio. Vite arcaiche e bestiali nelle piccole Saigon della Locride e vite di frontiera a Roma, Milano, Amburgo. Carne in scatola e fichi secchi trangugiati in bunker sottoterra in Aspromonte e caviale e champagne gustati in locali à la page in Via Veneto nella capitale. Racket primordiale a Reggio e ingegneria finanziaria fine nella City. Due aspetti della stessa essenza.

Una terra di contrasti e vischiosità dove è quasi impossibile tirare linee nette di separazione tra ordine e disordine, vittime e carnefici, legalità e illegalità. I reportage e le narrazioni presidiano ovviamente gli estremi: i bruti e i maghi della produzione di moneta a mezzo di moneta. Sorvolando con scioltezza il cuneo di costrutti intenzionali che consentono la riproduzione nel tempo della doppiezza della ‘ndrangheta. Oscurando, soprattutto, la stretta complementarità tra radicamento arcaico in Calabria e capacità d’internazionalizzazione, tra miseria umana locale e ridondante ricchezza globale.

Come qualsiasi altro luogo del mondo, non è facile spiegare e capire la Calabria senza viverci. Non bastano le interviste e qualche scorribanda di pochi giorni, né gli sguardi esterni freddi, disinteressati. Servono estraneità e vicinanza, freddezza e calore. La Calabria si capisce soprattutto se si è interessati al suo destino, se si è convinti che il suo miglioramento è parte del benessere collettivo, non una sua sottrazione.

Se si abbandona la comoda logica del transfert, dell’intestare le storture del paese unicamente al Sud e alle sue aree più marginali. La Calabria non è un luogo altero, geneticamente altro, alle prese con meccanismi regolativi unici. Tantomeno un luogo immobile, senza innovazione. Trenta anni fa Gioia Tauro era ancora una promessa mancata, le università allo stato nascente, la Piana di Sibari in prima trasformazione, il terzo settore sfarinato e immaturo.

Osservata dal basso e nel tempo sembra invece un’area nella quale i problemi italiani si presentano con forme più acute e destabilizzanti. Un posto dove la tradizionale penuria di spirito pubblico è esasperata; dove i diritti civili sono meno garantiti che altrove; dove i servizi pubblici sono più carenti e di più bassa qualità; dove la mortificazione della disoccupazione è più drastica; dove la criminalità è più efferata e radicata; dove le classi dirigenti sono di più modesta caratura. Un classico circolo vizioso che si autoalimenta, ma non un’altra Italia.

 

La Calabria non è un mondo a sé, un eremo improbabile. Non è neppure un luogo cenerentola, misconosciuto e trascurato dallo Stato e dalle politiche pubbliche. Forse non ha ricevuto ciò che sarebbe servito per scalare la via dell’autonomia economica e della crescita sociale autodiretta: i migliori maestri, i più motivati carabinieri, i migliori parroci, i più competenti ingegneri.

Sicuramente ha assorbito pessimo Stato e pessime politiche: bidelli, pensioni d’invalidità, indennità miserevoli. Sempre però sotto il vincolo delle reciproche convenienze per le classi dirigenti locali e per le classi dirigenti centrali. Dunque, non funziona neppure il transfert al contrario: prendersela con altri, con lo Stato nazionale, con la Lega, con i giornalisti del Nord.

Se la Calabria è un’Italia più critica la responsabilità è soprattutto dei calabresi. Delle loro convenienze a ritagliarsi piccole o grandi rendite nella subalternità e nella modernizzazione passiva, eterodiretta. Dei loro benefici a rimanere chiusi e protetti nelle nicchie, anche se si tratta di nicchie avvizzite e vulnerabili. Della redditizia vista bassa delle nostre élite dirigenti e della convenienza all’exit di tanti.

*Docente di Economia Applicata presso il  Dipartimento di Economia e Statistica, Università della Calabria. Vicepresidente della Giunta Regionale della Calabria dal 2008 al 2010.

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