I paesi dell’acqua e l’artificiale [di Umberto Cocco]

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Con un titolo originale (“I paesi dell’acqua e l’artificiale“), un testo dove non compare mai l’abusata parola valorizzazione, il Comune di Ghilarza e quello vicino di Soddì hanno presentato in Regione un progetto di risanamento e ripristino ambientale delle sponde del Lago Omodeo devastate da una cava, davanti al villaggio vecchio di Zuri, al cimitero abbandonato.

Luogo simbolo del sacrificio fatto a vantaggio della diga del Tirso degli anni ’20, e di quella più recente del 1997, quel che resta di Zuri vecchio – il tracciato urbanistico, le fondazioni delle case, le fondazioni della chiesa di Santa Barbara – riemerge ogni tanto, come la foresta fossile di Sa Manenzia, il camposanto dove concessero agli abitanti di continuare a seppellire i morti sino al 1931. Sta nel limbo creato dai livelli delle acque fra quota del massimo invaso (a 105 metri slm) e la quota reale dove l’acqua effettivamente arriva nelle sue escursioni (fra i 95 mt e spesso al di sotto).

Sono espropriati i terreni lungo tutta la fascia, ma gli oliveti e gli orti arrivano sino alle sponde, in molti tratti. Per un fronte di alcuni chilometri – e proprio in quel punto dove sorgeva il villaggio – un’attività di cava lunga un trentennio ha distrutto, provocato un dissesto, aperto voragini, occluso vie d’acqua. L’imprenditore che ha fatto i profitti estraendo sabbia, ha avuto una condanna dalla magistratura e dovrebbe ripristinare un bel tratto della riva, sul versante meridionale, di Tadasuni. Sull’altro, una certa tolleranza generalizzata non lo ha fatto condurre di nuovo davanti ai giudici.

Accanto c’è il poligono di tiro della polizia del Caip di Abbasanta, e tutto contribuisce a fare di queste sponde e dei sentieri per arrivarci una discarica; le strade costruite dalle amministrazioni pubbliche per ridisegnare una rete di infrastrutture, con il sogno di farci anche turismo sul lago, ridotte a tratturi con improvvisi cedimenti dati dal dissesto a valle, o dalla percorrenza dei mezzi della polizia, irriguardosi, dei motociclisti da rally che hanno scoperto l’ebbrezza delle accelerazioni sulla sabbia e la melma, i salti nelle voragini della cava. E’ anche tutta area Sic, quello del Rio Siddo, preziosa per biodiversità, vegetazione spontanea, nidificazioni, ma sembra un incidente di percorso, una ubbìa degli ambientalisti che scorgono occhioni, gallinelle prataiole, fra i pneumatici bersaglio dei tiri della polizia.

E’ successo che la sopravvivente comunità di Zuri, 100 abitanti nel nuovo villaggio accanto alla chiesa ricostruita sui bordi dell’altopiano, ha provato a invertire questa tendenza al degrado, come se né la prima né la seconda diga ne avessero fiaccato lo spirito, e sembrando loro, ai zuresi, giustamente assurdo che una cava di un vicino di paese potesse riuscire a fare ancor peggio.

Si sono sentiti dire da qualche architetto, amministratore pubblico, che il tempo e l’acqua avrebbero provveduto a risistemare il disastro: una specie di rassegnazione alla deriva, che pesca nell’ostilità delle popolazioni al lago, nel rapporto mai ricostruito con quel Tirso rigonfio e a lungo inquinato, dove molti pastori gettano le carcasse degli animali morti, e l’Enel ha lasciato sott’acqua case con tetti in eternit, cavi, tralicci, gli scarichi agricoli producono più danni di quelli di Ottana.

Hanno partecipato in più di 50 all’assemblea pubblica a sostegno del progetto l’altra sera a Zuri, è la metà della popolazione. Hanno chiesto ai progettisti incaricati dai Comuni di cancellare ogni superfetazione, panchine, piazzole, opere di valorizzazione cosiddette, in cui tutti i progetti vanno a finire (uno, dei Comuni di Sedilo e del Guilcier, parla di percorsi dell’acqua e poi finisce con il mettere mano ai santuari campestri, ai novenari, prevede bacheche sulle facciate delle chiese rurali, pietra a vista dove gli antichi mettevano l’intonaco, e sabbiature, abbeveratoi affidati all’estro dei vicesindaci, muretti a secco a doppia fila di pietre e il cemento in mezzo).

Hanno chiesto semplicemente che si provi a restituire quella campagna e quella sponda all’uso, semplicemente uso, il loro rapporto quotidiano, dal contadino che tiene l’oliveto al passeggiatore solitario, al raccoglitore di asparagi, con la riva ripristinata senza un grammo di cemento, semplicemente rimodellando la sabbia, ricoprendo le voragini, lasciando alla vegetazione spontanea di riformarsi, e ripristinando le strade nei tratti dove ne sono crollati pezzi.

Non sono masse, ma è una comunità, che si vuole ricostituire riconciliandosi con un luogo dal quale è come se fosse stata scacciata più volte, e dove farebbe bene a riconciliarsi lo Stato, la Regione, la pubblica amministrazione che ha solo preso da qui, ha fatto i conti degli interessi a valle, da Arborea al Campidano di Cagliari e ora anche sino a Carloforte dove arriva l’acqua del Tirso quando è necessaria, lasciando queste comunità al loro destino da “effetto collaterale“.

Il bando regionale mette a disposizione poche risorse, 300mila euro soltanto in provincia di Oristano, un progetto solo vincerà. Sono somme (complessivamente 2.748.000) che provengono dalle sanzioni irrogate dagli uffici di tutela paesaggistica, e forse anche stare in graduatoria è un successo, in attesa che la Regione ci creda di più. Si può intervenire in aree sottoposte a vincolo, per ripristino ambientale e interventi di salvaguardia e di recupero di valori paesaggistici, culturali. Zuri sembra la sintesi di questa idea.

Covano altri pensieri nella mente di qualche “resistente“: per esempio aderire al movimento che cresce, nel mondo, di protesta contro la costruzione delle grandi dighe, si organizza attorno all’International Rivers Network, e ha ha proclamato il 14 marzo di ogni anno la “Giornata internazionale per i fiumi, le acque, la vita“, contro i gravi danni di questa infrastrutturazione che sta spostando milioni di persone, in Cina, in Asia, nel Medio Oriente, in nome del progresso ma senza tenere in considerazione gli effetti a monte degli sbarramenti. Il leader e direttore è Patrick McCully, Università di Berkeley, California, autore di un testo (Silenced Rivers, Londra, 2001) diventato manifesto di un vero e proprio movimento di opinione, fatto proprio ormai anche dalla Commissione Mondiale sulle Dighe.

Qui, lungo il Tirso, le persone deportate sono state poche centinaia, ma è come se i nipoti di quegli uomini, donne e bambini che una foto ritrae alla vigilia del trasferimento e che sembrano in un campo di concentramento, fossero ancora preda di incubi. Sono diventati simbolo di un riscatto, ricostruendo la magnifica chiesa pietra su pietra, e la Carta di Zuri del movimento sindacale sardo per questo ha scelto il luogo, il nome, qualche anno fa. Ma sono costretti entro confini strettissimi, il paese non può allargarsi, è ingabbiato, sull’altopiano, e violato, saccheggiato, a valle il territorio da dove vengono.

 

One Comment

  1. Patrizia porta

    Mio padre era fra quei deportati e io ho voluto realizzare la mia tesi di laurea proprio a Zuri vecchio.Lui mi ha accompagnata nel rilevamento geologico per la valutazione ambientale del suo paese d’origine. Io sono la figlia che ha rilevato lo scempio di quei luoghi a che è d’ accordo con questo articolo che esprime competenza e conoscenza dei luoghi e delle situazioni.
    Patrizia Porta

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