I siriani ricominciano da capo [di Alessandro Columbu]
Da qualunque punto di vista la si guardi, la recente e fragilissima tregua in Siria iniziata ufficialmente il 27 febbraio scorso è una buona notizia. Promossa da russi e americani tra i gruppi armati rivoluzionari da una parte e la pletora di milizie in difesa del regime della famiglia Assad dall’altra, quella siriana non è sicuramente una tregua perfetta, né tantomeno completa. Da una parte e dall’altra i tentativi di destabilizzazione non mancano, così come le politiche di assedio a intere comunità di civili senza acqua, cibo ed elettricità. Eppure, dopo cinque anni di rivoluzione e di feroce repressione governativa che ha portato alla più grande crisi umanitaria degli ultimi decenni, il drastico calo del numero delle vittime, sceso da una media quotidiana di centocinquanta nei periodi più sanguinosi, al totale di appena (!) centotrentacinque durante la prima settimana di tregua, rappresenta se non altro una boccata d’ossigeno per un paese martoriato. Rimangono infatti le ferite incancellabili di cinque anni di massacri e di bombardamenti, di crimini efferati e di vere e proprie operazioni di pulizia etnica e settaria. Rimane un terzo della popolazione dislocata, rifugiatasi in varie aree del paese e all’estero, soprattutto in Libano e Turchia. Rimangono intere città distrutte: se anche le ostilità dovessero magicamente concludersi domani, tantissime città tra cui Homs, Aleppo e diversi sobborghi della capitale Damasco porteranno per decenni i segni di una politica di contro-insurrezione che la famiglia Assad e i suoi alleati hanno condotto con spietata efficacia. Rimangono in piedi e con una nutrita presenza politico-militare nel territorio le formazioni salafite e islamiste, l’altra faccia della medaglia dell’autoritarismo del Ba’ath, emerse a conseguenza della feroce repressione del regime e della sua politica di estremizzazione dell’opposizione. Un processo di sopraffina strategia politica che, sin dal maggio 2011, ha costantemente puntato a screditare l’opposizione progressista e pacifica e le sue manifestazioni spontanee, descrivendole come pedine di una congiura ordita dalle potenze regionali e volta a trasformare la “laica” Siria in una repubblica islamica. Già nel giugno 2011 infatti, dopo appena tre mesi dallo sbocciare della rivoluzione, in una mossa alimentata dai nobili ideali di tolleranza e democrazia dei quali è paladino, il presidente Bashar al-Assad promulga un’amnistia che commuta la pena, tra gli altri, della cosiddetta ‘gang di Seydnaya’. Tre nomi in particolare, incarnano la progressiva islamizzazione della rivoluzione alimentata dal regime: Zahran ‘Alloush, che di lì a poco avrebbe fondato l’Esercito dell’Islam, ucciso in un raid russo il 25 dicembre scorso; Hassan Aboud fondatore e leader di Ahrar al-Sham; Ahmed Abu Issa, leader delle brigate di Suqour al-Sham, tutti ex inquilini della prigione di Sednaya, rilasciati nell’estate di quell’anno. Una strategia peraltro testata in modo impeccabile in precedenza da altri regimi autoritari che, con l’obiettivo di riacquistare la legittimità perduta inquinano e imbarbariscono l’opposizione organizzata attraverso infiltrazioni, con l’utilizzo di reti criminali e jihadiste (basti pensare alla guerra civile algerina degli anni ’90 o alla guerra dei russi in Cecenia). Rimangono le pratiche di occupazione e di pulizia etnica neocoloniale di enormi porzioni di territorio siriano da parte dell’autoproclamato stato islamico (Da’esh), che espelle le popolazioni locali, musulmani e non, e combatte una battaglia senza quartiere contro forze governative e forze ribelli indiscriminatamente. Tuttavia c’è speranza. E verrebbe quasi da essere ottimisti. A distanza di cinque anni da quelle prime manifestazioni pacifiche del marzo 2011, e approfittando della tregua che ha fermato i barili-bomba della famiglia Assad e dei suoi sgherri, i siriani sono tornati in piazza. Ogni venerdì da tre settimane a questa parte, sono tornate in strada le bandiere della rivoluzione, i giovani manifestanti che chiedono la caduta della dittatura, i cori e le canzoni che deridono il dittatore e i suoi amici russi, libanesi e iraniani. Sono tornati in strada in quelle località sotto controllo ribelle che oggi sfuggono ancora alla morsa della contro-insurrezione, che difendono strenuamente il loro status di ‘territori liberi’ e che in tempi non sospetti avevano messo in piedi i primi esempi di democrazia partecipata e di società civile indipendente in Siria da cinquant’anni a questa parte. Daraya, alla periferia di Damasco; Homs, definita da alcuni la capitale della rivoluzione; Idleb, unica provincia siriana attualmente sotto controllo dei rivoluzionari, dove infatti si è concentrata la gran parte delle manifestazioni; Aleppo e il circondario di una città distrutta e martoriata. In tutte queste e in numerose altre località (per un totale di centoquattro città coinvolte il primo venerdì dopo la tregua) le manifestazioni sono riapparse per ribadire un messaggio che risuona da cinque anni e che non accenna ad affievolirsi: la rivoluzione va avanti. La rivoluzione contro il fascismo mafioso e settario della famiglia Assad, in primo luogo, ma anche e in maniera forse più sorprendente, contro le nuove forze fondamentaliste, patriarcali e autoritarie che si sono imposte in numerose città. Il Fronte al-Nusra (Jabhat al-Nusra) in particolare, considerato la filiale di al-Qa’eda in Siria, è tra gli obiettivi delle recenti proteste a Ma’arrat al-Nu’man, dove le manifestazioni sono state inizialmente boicottate, e i manifestanti attaccati fisicamente da membri di al-Nusra. Lo spirito di autodeterminazione, il desiderio di ricostruire il paese, il rifiuto senza alcun compromesso del dominio della famiglia Assad e della sua mafia di stato, ma anche e soprattutto un linguaggio che concepisce la Siria come un popolo unico, senza distinzioni di setta o di etnia, sono le note più positive per i siriani stessi, e in particolare per i tanti, troppi prigionieri politici progressisti e i numerosi attivisti e intellettuali democratici costretti all’esilio. Sono segnali che fanno sperare, e che contraddicono in maniera lampante le inesattezze e i pregiudizi di tanta stampa occidentale, adottati in maniera superficiale dalla sinistra globale (questa sconosciuta!) nella sua lettura della Rivoluzione Siriana del 2011. Un atteggiamento proprio anche di figure eminenti, che hanno screditato il movimento rivoluzionario come esclusivamente islamista ed eterodiretto, alla mercé di forze imperialiste, rivelando forse inconsciamente un razzismo e un paternalismo sottaciuto. Una lezione per l’universo politico globale e che contribuisce al progressivo processo di cancellazione delle storiche distinzioni binarie tra destra e sinistra, orientalisti e postmoderni, imperialisti vecchio stile e progressisti “obamiani” e che incoraggia un approccio diverso nei confronti del mondo arabo e di questa sua nuova pagina di storia. *Dottorando e insegnante di lingua araba all’Università di Edimburgo, in Scozia. Ha imparato l’arabo a Tunisi, Damasco, Beirut e Amman. Di recente ha pubblicato una traduzione dall’arabo in lingua sarda di una raccolta di racconti del siriano Zakaria Tamer. A maggio sarà ospite all’università di Cagliari per tenere due seminari sulla Siria. |