Virginia Raggi, l’anti Maria Elena Boschi che viene dalla borgata [di Flavia Perina]

La candidata M5s a sindaco di Roma Virginia Raggi durante la conferenza stampa nella sede dell'Associazione Stampa Estera, Roma, 25 febbraio 2016.  ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

Linkiesta 21 Marzo 2016 – E’ nata una stella politica e mediatica. Lontana sia dagli shabadabada che dalla mitologia “incendiaria” dei grillini. Pitonesse e Fate Turchine, addio. La rapida evoluzione del modello donna-in-politica approda dopo molte incertezze fra i poli opposti della urlatrice e della seduttrice, a uno status più “normale”, anche se ancora da decifrare completamente. Mora, occhi castani, decisamente metropolitana nel look senza fronzoli: anche esteticamente Virginia Raggi è l’Anti-Boschi e l’Anti-Santanché che la stampa cercava da un pezzo.

L’esatto opposto delle celebrate colleghe, dalla biografia all’estetica, dalla gestualità al percorso politico, dall’anamnesi famigliare alla concezione della parola “impegno”. La copertina che le ha dedicato l’Espresso (“Raggi X”) certifica la nascita di una stella mediatica, peraltro anticipata da una pagina in cui l’Economist l’ha gratificata del più inusuale dei complimenti per una donna italiana: quello di assomigliare, per stile e messaggio «a un’aspirante congress-woman americana o a una Tory britannica».

Nel Paese degli eterni provincialismi, dove le donne in politica sono state spesso raccontate come elementi “di colore”, l’allure internazionale di una candidata è già una novità. Ed è questo il primo e più vistoso elemento di distanza tra Maria Elena e Virginia: quella cresciuta della minuscola Laterina, la più ammirata, sempre prima della classe, mai una parolaccia, mai una sigaretta, Madonna nel presepe vivente, insegnante di catechismo e volontaria al bar della parrocchia; quell’altra venuta su nell’anonimato del quartiere di San Giovanni e poi di Ottavia, borgata di Roma Nord, non bellissima, non bionda, non destinata fin dall’infanzia a speciali destini ma con la casuale indeterminatezza dei ragazzi di città.

Una al Petrarca, il liceo-top di Arezzo (classico); l’altra al Newton di viale Manzoni (scientifico) a ridosso della metropolitana e quindi decisamente interclassista, zecche, coatti e media borghesia, scaricati a vagonate dalla Linea A e a vagonate re-distribuiti dalla stessa nei luoghi degli studenti che fanno sega. Virginia – che pure dovrebbe essere “l’estremista” di questa campagna elettorale – non alza la voce e interrompe poco. Non usa il modello (inconsapevolmente?) seduttivo della Boschi ma neanche quello aggressivo della Santanché.

Immaginarla denunciare le “palle di velluto” dei maschi in politica o mostrare il dito medio ai contestatori è impossibile. Le manca lo status, il codice genetico, l’imprinting decisionista collegato al potere, quel sottotesto nobiliare («Io so’ io, e voi…») che quasi si sposa alle frequentazioni importanti e ai successi professionali. Viene dai centri d’acquisto solidale di arance e olio, Virginia, non dal Twiga: anche per questo è riuscita a schivare con facilità il fuoco amico di chi le contestava l’apprendistato nello studio Sammarco, il cui fratello fu avvocato di Previti: «Facevo fotocopie come qualsiasi praticante della mia età», si è difesa, ed è finita lì. Una con un altro stile non sarebbe stata perdonata.

Sondaggi attendibili ancora non ce ne sono, ma presto la campagna elettorale ci dirà se questo inedito modello british reggerà alla prova dei fatti e al confronto con la città meno britannica d’Europa: la Roma caciarona e sbragata che in dieci anni ha tritato la vecchia politica, la nuova e la nuovissima, asfaltando Rutelli, Alemanno e Marino con la cinica indifferenza di un caterpillar e decretando a suo capriccio la fortuna e il disastro di intere filiere politiche. La Raggi, come ha giustamente notato l’Economist, liscia la città per il verso del pelo.

E’ furba. Si tiene lontana dal racconto incendiario che i grillini fanno altrove. Parla di “rivoluzione della normalità”. A Sky, intervistata da Maria Latella, dice “ripulire dal marcio la città”, e però non si addentra nei dettagli – assenteismo, burocrazia, partecipate, guerra ai dehors e agli urtisti, litorale, licenze – e preferisce volare altrove, sulla questione dell’olio tunisino o nei macro-numeri del deficit metropolitano.

«‘Na gatta morta», dice il tassista che la sta ascoltando per radio. «Epperò Roma è la città dei gatti, mejo sta’ attenti a questa», se la ride. Ed è la chiosa che conferma il successo di questo nuovo modello di assertività femminile, oltre le Fate Turchine e le Pitonesse. Fino al voto, quantomeno. O fino alla prima scivolata. Anche se le gatte scivolano poco.

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