Guerra contro il terrorismo. Intervista a Noam Chomsky [di C.J. Polychroniou]

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L’intervista è stata rilasciata da Chomsky, intellettuale statunitense noto per la sua coscienza critica nei confronti della civiltà occidentale, alla rivista Truthout nel dicembre 2015. Traduzione di  Maria Chiara Starace per ZNET Italy.  

C.J. Polychroniou: Grazie, Noam, per questa intervista. Vorrei cominciare sentendo che cosa pensi dei più recenti sviluppi della guerra contro il terrorismo che è una politica risalente agli anni di Reagan e che fu successivamente trasformata in dottrina di “crociata” [Islamofobica] da George W. Bush con un costo semplicemente incalcolabile di vite umane innocenti e con effetti sorprendentemente profondi per la legge internazionale e la pace mondiale. La guerra al terrorismo sta apparentemente entrando in una fase  nuova e forse più pericolosa, dato che altri paesi si sono buttati nella mischia con agende politiche e interessi differenti, rispetto a quelli degli Stati Uniti e di alcuni dei loro alleati. Primo, sei d’accordo con la succitata valutazione sull’evoluzione della guerra contro il terrorismo e, se sì, quali saranno  probabilmente le conseguenze economiche, sociali e politiche di una guerra permanente al terrore per le società occidentali in particolare?

Noam Chomsky: Le due fasi della “guerra al terrore” sono molto diverse, eccetto che per un aspetto fondamentale. La guerra di Reagan si trasformò molto rapidamente in guerre terroriste omicide, e presumibilmente è il motivo per cui è stata fatta “sparire”. Le sue guerre terroriste ebbero conseguenze orribili per l’America Centrale, l’Africa meridionale e il Medio Oriente. L’America Centrale, il suo obiettivo più diretto, deve ancora riprendersi, una delle principali ragioni dell’attuale crisi di profughi. Lo stesso si può dire della seconda fase, dichiarata di nuovo da George W. Bush 20 anni dopo, nel 2001. L’aggressione diretta ha devastato vaste aree e il terrore ha assunto nuove forme, in particolare la campagna globale di assassinio con i droni, di Obama, che infrange nuovi record negli annali del terrorismo e, come altre azioni simili, probabilmente genera terroristi devoti più in fretta di quanto uccida le persone sospette.

L’obiettivo della guerra di Bush era al-Qaida. Una martellata dopo l’altra –  Afghanistan, Iraq, Libya e oltre, è riuscito a diffondere il terrore jihadista da una piccola area tribale in Afghanistan a, praticamente, tutto il mondo, dall’Africa Occidentale e, attraverso il Levante  fino all’Asia sudorientale. Uno dei grandi trionfi politici della storia. Nel frattempo, al-Qaida è stata rimossa da elementi molto più feroci e distruttivi. Attualmente, l’ISIS (ISIL – Stato Islamico) ha il record di mostruosa brutalità, ma altri “pretendenti” al titolo non sono molto indietro. La dinamica che risale a molti anni fa, è stata studiata in un’importante opera dall’analista militare Andrew Cockburn, nel suo libro Kill Chain. Documenta come, quando si uccide un leader senza occuparsi delle radici e delle cause del fenomeno, viene di solito sostituito molto rapidamente da qualcuno più giovane, più competente e più violento.

Una conseguenza di queste conquiste è che l’opinione pubblica mondiale considera con largo margine, gli Stati Uniti come la maggior minaccia alla pace. Molto indietro, al secondo posto c’è il Pakistan, posizione  presumibilmente  ingrandita dal voto in India. Ulteriori successi del genere già registrato potrebbero  creare anche una più vasta guerra con un mondo musulmano infiammato, mentre le società occidentali si assoggettano a repressione interna, alla riduzione dei diritti civili e gemono sotto il peso di enormi spese, realizzando i sogni più folli di Osama bin Laden e quelli attuali dell’ISIS.

Nella discussione politica che ruota attorno alla “guerra al terrore”, la differenza tra operazioni dichiarate e quelle segrete non è certo  sparita. Nel frattempo l’identificazione dei gruppi terroristi e la scelta dei protagonisti o degli stati che appoggiano il terrorismo non soltanto sembra essere totalmente arbitraria, ma in alcuni casi anche i colpevoli identificati hanno sollevato il dubbio se la “guerra al terrore” sia di fatto una vera guerra contro il terrorismo o se sia una copertura per giustificare delle politiche di conquista globale. Per esempio, mentre al-Qaida e l’ISIS sono organizzazioni innegabilmente terroriste e assassine, il fatto che alleati degli Stati Uniti come l’Arabia Saudita e il Qatar e perfino nazioni che sono membri della NATO, come la Turchia, abbiano di fatto appoggiato l’ISIS, è o ignorato o seriamente minimizzato sia dai decisori politici statunitensi che dai media convenzionali. Ha dei commenti da fare su questo argomento?

Lo stesso si poteva dire delle versioni di Reagan e di Bush della “guerra al terrore”. Per  Reagan è stata il pretesto per intervenire  in America Centrale per quella che il Vescovo del Salvador, Rivera y Damas, succeduto all’Arcivescovo Oscar Romero che fu assassinato, definì “una guerra di sterminio e genocidio contro una popolazione civile indifesa.” E’ stato anche peggio in Guatemala, piuttosto orribile in Honduras. Il Nicaragua era l’unico paese che aveva un esercito che lo difese dai terroristi di Reagan; negli altri paesi le forze di sicurezza erano i terroristi.

In Sudafrica, la “guerra al terrore” fornì il pretesto per appoggiare i crimini razzisti sudafricani in patria e nella regione, con un costo orrendo di vite umane. Dopo tutto, dovevamo difendere la civiltà da “uno dei più famigerati  gruppi terroristi” del mondo, il Congresso Nazionale Africano di Nelson Mandela. Lui stesso rimase sulla lista americana dei terroristi fino al 2008. In Medio Oriente, l’idea  della “guerra al terrore” portò all’appoggio all’ invasione omicida del Libano da parte di Israele, e a molto altro. Con Bush, fornì il pretesto per invadere l’Iraq. E continua così.

Quello che sta accadendo in Siria  sfugge  alla descrizione. Le principali forze di terra che si oppongono all’ISIS sembra siano i Curdi, proprio come in Iraq, dove sono sulla lista statunitense dei terroristi. In entrambi i paesi, sono l’obiettivo primario dell’assalto del nostro alleato, la Turchia che sta appoggiando anche il gruppo affiliato di al-Qaida in Siria, il Fronte al-Nusra che sembra poco diverso dall’ISIS, sebbene siano in guerra per il territorio. L’appoggio turco per al-Nusra è così estremo, che quando il Pentagono inviò varie dozzine di combattenti che aveva addestrato, sembra che la Turchia abbia allertato al Nusra che istantaneamente li sterminò. Al-Nusra  e Ahrar al-Sham suo stretto alleato, sono appoggiati dagli alleati degli Stati Uniti, Arabia Saudita e Qatar e, sembra, potrebbero ricevere armi moderne dalla CIA. Hanno riferito che hanno usato missili TOW anti carro,  forniti dalla CIA per infliggere gravi sconfitte all’esercito di Assad, probabilmente spingendo i Russi a intervenire. La Turchia sembra che continui a permettere agli jihadisti di affluire attraverso il confine verso l’ISIS.

L’Arabia Saudita in particolare è stata un’importante sostenitrice del movimenti estremisti jihadisti per anni, non soltanto per finanziarli, ma anche per diffondere le sue radicali dottrine Wahhbite islamiste con  le scuole coraniche, le moschee e gli ecclesiastici. Con non poca giustizia, Patrick Cockburn descrive la “Wahhabizzazione” dell’Islam sunnita come uno degli sviluppi più pericolosi dell’epoca. L’Arabia Saudita e gli Emirati hanno enormi  forze militari moderne, ma sono a malapena impegnati nella guerra contro l’ISIS. Operano in Yemen dove stanno creando una considerevole catastrofe umanitaria e molto probabilmente, come prima, stanno generando terroristi futuri per farli diventare nostri obiettivi nella nostra “guerra al  terrore.”

Nel frattempo, la regione e la sua gente continuano a essere  devastati. Per la Siria l’unica esile speranza sembra che siano i negoziati tra i molti elementi coinvolti, escluso l’ISIS. Tra questi ci sono persone realmente orribili, come il presidente siriano Bashar al-Assad che non commetteranno volentieri un suicidio, e così dovranno essere coinvolti in negoziati se la spirale verso il suicidio nazionale non dovesse continuare.  Finalmente si fanno dei passi, anche se esitanti, a Vienna. Ci sono altre cose che si possono fare sul terreno, ma uno spostamento verso la diplomazia è essenziale.

Il ruolo della Turchia nella cosiddetta guerra globale contro il terrorismo deve essere considerato come uno degli atti più ipocriti nei moderni annali della diplomazia; Putin non ha moderato le parole in seguito all’abbattimento dell’aereo da caccia russo, etichettando la Turchia “complice dei terroristi.” Il petrolio è il motivo per il quale gli Sati Uniti e i loro alleati occidentali consapevolmente ignorano l’appoggio di certe nazioni del Golfo alle organizzazioni terroriste come l’ISIS, ma quale è il motivo di evitare di contestare  l’appoggio della Turchia al terrorismo fondamentalista islamico? 

La Turchia è sempre stata un importante alleato della NATO, di grande importanza geostrategica. Nel corso di tutti gli anni ’90, quando la Turchia stava compiendo alcune delle peggiori atrocità nella sua guerra contro la popolazione curda, divenne la massima beneficiaria delle armi statunitensi (al di fuori di Israele ed Egitto, una categoria separata). Il rapporto è stato teso, di tanto in tanto, soprattutto nel 2003 quando il governo adottò la posizione del 95% della popolazione e si rifiutò di partecipare all’attacco degli Stati Uniti all’Iraq.

La Turchia fu aspramente condannata per non essere riuscita a comprendere il significato di “democrazia.”  Paul Wolfowitz che i media salutarono come “l’idealista principale” dell’amministrazione Bush, rimproverò le forze armate turche per aver permesso al governo di perseguire questo corso sconvolgente, e chiese che si scusassero. In generale, però, il rapporto restò piuttosto stretto. Di recente gli Stati Uniti e la Turchia hanno raggiunto un accordo sulla guerra contro l’ISIS: la Turchia ha garantito l’accesso alle basi turche vicine alla Siria, e in cambio ha promesso di attaccare l’ISIS – ma invece ha attaccato i suoi nemici curdi.

Mentre questa potrebbe non essere un’opinione gradita a molte persone, la Russia, al contrario degli Stati Uniti sembra “misurata” quando si tratta dell’uso della forza. Supponendo che tu sia d’accordo con questa ipotesi, perché pensi che le cose stanno così?

Sono la parte più debole. Non hanno 800 basi militari in tutto il mondo, non potrebbero verosimilmente intervenire dovunque nel modo in cui gli Stati Uniti lo hanno fatto nel corso degli anni o fare qualcosa di simile alla campagna di assassinio di Obama. Lo stesso è avvenuto durante tutta la Guerra Fredda. Poterono usare la forza militare vicino ai loro confini, ma non poterono intraprendere nulla di simile alle guerre in Indocina, per esempio.

La Francia sembra essere diventata un obiettivo preferito dei terroristi fondamentalisti islamici. Quale è la spiegazione di questo?

In realtà sono molti di più gli Africani uccisi dal terrorismo islamico. Infatti Boko Haram  è classificato più in alto rispetto all’ISIS come organizzazione terrorista globale. In Europa, la Francia è stata l’obiettivo più importante, in gran parte per motivi che risalgono alla guerra di Algeria.

Il terrorismo fondamentalista islamico del genere promosso dall’ISIS è stato condannato da organizzazioni come Hamas ed Hezbollah. Che cosa differenzia l’ISIS da altre cosiddette organizzazioni terroriste, e che cosa vuole realmente l’ISIS?

Dobbiamo stare attenti a ciò che chiamiamo “organizzazioni terroriste.” I partigiani anti-nazisti usarono il terrore. E lo ha usato anche l’esercito di George Washington a tal punto che  una gran parte della popolazione scappò per la paura del suo terrore – per non parlare della comunità indigena, secondo la quale Washington era “il distruttore della città.” E’ difficile trovare un movimento nazionale di liberazione che non abbia usato il terrore. Hezbollah e Hamas si sono formate in reazione all’occupazione e aggressione di Israele. Ma qualsiasi criterio usiamo, l’ISIS è molto diversa. Sta cercando di ritagliarsi un territorio che governerà e di istituire un califfato islamico. E’ molto diverso dagli altri movimenti.

In seguito al massacro di Parigi del novembre 2015, durante una conferenza stampa congiunta con il Presidente francese, Hollande, Obama ha dichiarato che “l’ISIS deve essere distrutta”. Pensa che sia possibile farlo?  Se sì, come? Se no, perché no?

Naturalmente l’Occidente ha la capacità di massacrare tutti nelle zone controllate dall’ISIS, ma anche questo non  distruggerebbe l’ISIS – o, molto probabilmente qualche altro movimento brutale che si dovesse sviluppare al suo posto con la dinamica  che ho citato prima. Uno scopo dell’ISIS è di trascinare i “crociati” in una guerra con tutti i musulmani. Possiamo contribuire a questa catastrofe, oppure possiamo tentare di affrontare le radici del problema e di contribuire a stabilire le condizioni in cui la mostruosità dell’ISIS sarà vinta da forze all’interno della regione.

L’intervento straniero è stata una maledizione per molto tempo ed è probabile che continui ad esserlo. Ci sono proposte sensate su come procedere su questa linea, per esempio quella fatta da William Polk, un raffinato studioso di Medio Oriente con una ricca esperienza non soltanto nella regione, ma anche ai più alti livelli della pianificazione del governo statunitense. Tale proposta ha un considerevole appoggio dalle indagini più attente dell’attrattiva dell’ISIS, specialmente quelle svolte [dell’antropologo] Scott Atran. Sfortunatamente, le possibilità che quel consiglio sarà ascoltato sono scarse.

L’economia politica bellica statunitense sembra essere strutturata in modo tale da apparire che sia quasi inevitabile, una cosa di cui il Presidente Dwight Eisenhower sembrava fosse consapevole, quando ci avvertì, nel suo discorso di commiato, dei pericoli del complesso militare-industriale. Secondo te, che cosa ci vorrà per far allontanare gli Stati Uniti dallo sciovinismo militaristico?

E’ piuttosto vero che i settori dell’economia traggono vantaggio dallo “sciovinismo militaristico”, ma non penso che questa sia la causa principale. Ci sono considerazioni internazionali geostrategiche ed economiche di grande importanza. I benefici economici  – sono un soltanto fattore – sono stati discussi sui giornali di economia in modi interessanti all’inizio del periodo seguito alla II Guerra mondiale.

Capirono che le massicce spese fatta dal governo avevano salvato il paese dalla Depressione e che c’era grande preoccupazione che se le spesa pubblica fosse stata ridotta, il paese sarebbe ricaduto nella Depressione. Una discussione istruttiva, sulla rivista  Business Week (12 febbraio 1949), ha riconosciuto che la spesa sociale potrebbe avere lo stesso effetto di “politiche di intervento”  della spesa militare, ma ha fatto notare che, secondo gli uomini di affari, “c’è una grandissima differenza tra le politiche di intervento in campo sociale e quelle in campo militare.”

Le seconde “non alterano realmente la strutture dell’economia.” Per l’uomo d’affari, è soltanto un altro ordine, ma la spesa per i sussidi pubblici e le opere pubbliche “altera davvero l’economia. Crea nuovi canali propri. Crea nuove istituzioni. Redistribuisce il reddito.” E possiamo aggiungere altro. Le spese militari coinvolgono scarsamente il pubblico, ma la spese sociali  sì, e hanno un effetto democratizzante. Per ragioni analoghe a queste, si preferiscono molto di più le spese militari.

Sempre riguardo a questo problema sul collegamento tra la cultura politica statunitense,  l’apparente declino della supremazia americana nell’arena globale è più o meno probabile che trasformi i futuri presidenti degli Stati Uniti in guerrafondai?

Gli Stati Uniti raggiunsero il picco del loro potere dopo la II Guerra Mondiale, ma il declino arrivò molto presto con la  “perdita della Cina”, (quando la Cina divenne comunista) e in seguito con una rinascita delle potenze industriali e il corso agonizzante della decolonizzazione e, in anni più recenti, con altre forme di diversificazione del potere. Le reazioni potevano assumere varie forme. Una è quella del trionfalismo e dell’aggressività in stile Bush. Un’altra è la ritrosia di stile Obama di usare le forze di terra. E ci sono molte altre possibilità. L’umore popolare non è di scarsa importanza ed è un aspetto sul quale possiamo  sperare  di avere influenza.

La Sinistra dovrebbe appoggiare Ben Sanders quando si affilia al gruppo parlamentare del Partito Democratico?

Penso di sì. La sua campagna ha avuto un effetto salutare. Ha sollevato importanti problemi che sono altrimenti evitati e ha spostato leggermente i Democratici in direzione progressista. Le probabilità che possa essere eletto nel nostro sistema  di elezioni comprate non sono molto alte, e se lo fosse sarebbe estremamente difficile per lui effettuare qualsiasi significativo cambiamento di politiche. I Repubblicani non spariranno, e grazie ai brogli e ad altre tattiche è probabile che controllino almeno la Camera come hanno fatto per alcuni anni con una minoranza di voti, ed è probabile che abbiano una voce forte al Senato.

Si può contare sul fatto che i Repubblicani bloccheranno anche  piccoli passai fatti in una direzione progressista – o peraltro, anche razionale. E’ importante riconoscere che non sono più un partito politico normale. Come hanno osservato dei rispettabili analisti dell’American Enterprise Institute, di indirizzo conservatore, l’ex Partito [Repubblicano] è ora “un’insorgenza radicale” che ha abbastanza abbandonato la politica parlamentare per motivi interessanti dei quali  qui non possiamo discutere. Anche i Democratici si sono spostati  a destra e i loro elementi fondamentali non sono diversi  dai Repubblicani moderati degli scorsi anni – sebbene alcune delle politiche di Eisenhower lo metterebbero più o meno dove Sanders si trova, sullo spettro politico. Sanders, perciò, è improbabile che avrebbe molto sostegno da parte del Congresso, e poco a livello statale.

Inutile dire che le orde di lobbisti e di ricchi donatori non sarebbero certo alleati. Perfino i passi occasionali di Obama in una direzione progressista sono stati per lo più bloccati, anche se ci possono essere altri fattori, forse il razzismo; non è facile spiegare la ferocia dell’odio che ha evocato in altri termini. In generale, però, nell’improbabile caso che Sanders venga eletto, le sue mani sarebbero legate, a meno che non succeda quello che alla fine è sempre importante: a meno che non si sviluppino dei movimenti popolari, creando un’onda che potrebbe cavalcare e che potrebbe (e dovrebbe) spingerlo più oltre di dove altrimenti andrebbe.

Questo ci porta, credo, alla parte più importante della candidatura di Sanders. Ha mobilitato un enorme numero di persone. Se quelle forze possono essere sostenute anche dopo l’elezione, invece di farle affievolire una volta che lo spettacolo è finito, potrebbero diventare il tipo di forza popolare di cui il paese ha proprio bisognose deve occuparsi in modo costruttivo delle enormi sfide che arriveranno. Le suddette osservazioni si riferiscono alla politica interna, alle aree su cui Sanders si è concentrato. Le sue concezioni e proposte di politica estera mi sembrano piuttosto convenzionalmente liberal democratiche. Non viene proposto nulla di particolarmente nuovo, per quanto possa vedere, comprese alcune supposizioni  che penso dovrebbero essere seriamente messe in discussione.

Un’ultima domanda. Che cosa dice a coloro che sostengono l’idea che porre fine alla “guerra al terrore” è ingenuo e sbagliato?

Semplice: perché? E una domanda più importante? Perché pensate che gli Stati Uniti dovrebbero continuare a dare un contributo importante al terrorismo globale,  mascherato  da “guerra al terrore”?

 

One Comment

  1. Italo Ferrari

    Molto più banalmente rispetto ai contenuti dell’intervista, mi viene da ricordare che sono 300 anni o poco più che noi occidentali andiamo in giro a prendere gli altri a calci nelle palle; poi mandiamo a casa loro i rifiuti tossici e radioattivi che produciamo a casa nostra; poi gli vendiamo le armi affinché possano scannarsi fra di loro evitandoci il fastidio di farlo noi; gli corrompiamo i politici (i quali per la verità, a nostra somiglianza, non si fanno pregare troppo) e provochiamo rivoluzioni a casa loro; dato che siamo diventati dei senza Dio, gli sfottiamo i loro; quando vengono nei nostri paesi gli concediamo generosamente di pulire i nostri rifiuti che noi non vogliamo più raccogliere o di prendere dalla pianta i nostri buoni pomodori che hanno il difetto di crescere vicino al suolo; concediamo, sempre al culmine della nostra generosità, di vivere in quartieri fatiscenti e per favore che non turbino la nostra tranquillità con la loro presenza-. E dopo, ci meravigliamo di non essere ringraziati per un simile trattamento. Mi accorgo però che questa che ho appena descritto è solo la “pars destruens” del ragionamento, forse la più facile anche se in troppi ancor oggi non sanno trarne le conseguenze. E’ estremamente più complicato affrontare il tema della “pars construens” e cioè decidere che cosa si debba fare d’ora in poi per giungere ad una vera normalizzazione dei rapporti fra noi e loro. Temo che anche se decidessimo di invertire totalmente la rotta rispetto a quanto abbiamo fatto sinora, ci vorrebbe un tempo assai lungo per ottenere risultati apprezzabili, quasi certamente incompatibile con la speranza di vita di noi tutti. Senza contare che coloro ai quali abbiamo consegnato la facoltà di decidere per noi non sarebbero strutturalmente in grado di assumere orientamenti così radicalmente rivoluzionari.

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