Un’altra idea di città [di Ilaria Agostini]
Eddyburg.it 25 Marzo 2016 . La succosa introduzione a un libro collettaneo che racconta come nelle città italiane (non a caso l’esempio scelto è Firenze, cavia dello stregone Renzi) i declina l’idea di città del neoliberismo e come un pugno di urbanisti può animare una molteplice attività di resistenza. Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista, perUnaltracittà 2004-2014, a cura di Ilaria Agostini, AIÒN edizioni 2016, €18,00 Un’altra idea di città. L’urbanistica neoliberista provoca resistenza popolare. Alla rappresentazione ufficiale delle politiche urbane si contrappone, in queste pagine, il racconto corale e antagonista di cittadine e cittadini, comitati ed esperti critici, uniti a Firenze nel “Gruppo Urbanistica” che ha fornito il sostegno tecnico alla lista di cittadinanza “perUnaltracittà”[1], per due legislature all’opposizione in Consiglio comunale. Due legislature, dal 2004 al 2014: anni in cui, a livello planetario, si accresce per poi deflagrare, la “bolla” edilizia. Favorita, in Italia, dalla diminuzione dei trasferimenti statali ai comuni e dall’opera demolitoria di Franco Bassanini che, a cavallo del millennio, da una parte incrementava a dismisura il potere nelle mani dei sindaci, mentre dall’altra rendeva possibile riversare gli oneri di fabbricazione nella spesa ordinaria dei comuni. Lo scivolamento progressivo dal welfare state al real estate si traduce in una nuova fase di cementificazione, interpretata a livello nazionale come unica risposta alla penuria di cassa dai comuni sempre più poveri. In epoca di dismissione industriale conclamata, l’economia peninsulare si orienta francamente sul mattone. La città diventa un grosso affare economico, i valori immobiliari aumentano e sulla loro crescita si fonda il consenso politico. Il «lucido disegno derogatorio» perseguito dagli anni Novanta[2], corrobora l’attività speculativa nell’edilizia. La contrattazione pubblico-privato nel decennio è prassi consolidata che immediatamente si trasforma in arbitrio e che sistematicamente – e legalmente – piega l’interesse comune a quello dei particolari. Il mestiere dell’urbanista, puntualizzava recentemente Edoardo Salzano, si trasforma in «facilitatore delle operazioni immobiliari». Dal canto loro, strette nella morsa del sistema finanziario, le imprese edili – che accedono al credito sulla base del capitale fisso (ossia del costruito) – costruiscono per poter continuare a costruire: è un circolo vizioso. Con un milione di nuovi alloggi invenduti[3], il consumo di suolo in Italia doppia generosamente la media europea. Lo scenario muta quando nel 2008, facendo seguito alla crisi dei mutui subprime, il mercato immobiliare crolla e i prezzi al metro quadro arrivati alle stelle, cadono in picchiata. Firenze è per l’intero decennio il banco di prova per il grande cantiere politico nazionale. Nel 2004, alla Provincia è eletto presidente in quota democristiana (Margherita) Matteo Renzi, ignoto trentenne, che diventerà sindaco nel giugno 2009 raccogliendo il testimone da Leonardo Domenici (Ds-Pd) ma cedendolo per occupare Palazzo Chigi, pochi mesi prima della naturale scadenza. Nella città toscana sono messe in atto le politiche che dal febbraio 2014, in qualità di presidente del Consiglio dei ministri, il “sindaco d’Italia” estenderà dalla scala urbana all’intero paese[4]: concentrazione del potere e svilimento del ruolo degli organi collegiali, velocità decisionale e forzatura delle norme, propaganda in luogo della pianificazione, obliterazione del dato sociale in nome del nuovo, del brand e dello smart. E apologia della tabula rasa. La città iniqua. Nel decennio, la pianificazione urbanistica rinuncia ai suoi compiti statutari ed è diffusamente percepita come anacronistica limitazione al finanzcapitalismo fondato sul «mattone di carta». Le politiche urbane si allineano al paradigma neoliberista che vuole l’1% arricchito a spese del restante 99%. Sintetizzato da Joseph Stiglitz nel 2011 nella formula fatta propria dal movimento di Occupy Wall Street («We are the 99%»), il paradigma produce “centri” – cittadelle del potere, fortificate e interconnesse da comunicazioni ad alta velocità – e “periferie” sempre più estese e distanti dai luoghi della politica[5], nelle quali i cittadini, lo registra in queste pagine Maurizio De Zordo, sono espropriati del naturale «diritto alla città»[6]. Non solo. L’urbanistica si rende “mezzo politico” capace di trasformare i quartieri in territorio di conquista da parte di quel segmento finanziario che non intrattiene «alcun legame con i luoghi in cui la ricchezza si produce»[7]. L’urbanistica diventa «qualcosa che può essere quotato in borsa, giocato con la stessa logica dei “derivati” su proiezioni del futuro»[8]. Si fa tossica. Alligna tra la debolezza dell’amministrazione e la miopia della speculazione finanziaria. Acceca i politici cui offre scenari a prospettiva raccorciata. In questa temperie si generano i disastri dei fallimenti comunali che alcuni critici denunciano da tempo[9]. Così, le «città infelici del neoliberismo» diventano sempre più estese e più ingiuste. All’aumento della superficie urbana segue infatti l’incremento delle spese – a tempo indeterminato – per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture di servizio e per i trasporti. Più la città cresce, più si indebita facendo ricorso agli strumenti finanziari che deliberatamente rompono il patto sociale su cui si fonda la vita civile (i debiti a lunga scadenza intaccano peraltro anche il patto generazionale). I bilanci comunali vacillano. Il rientro dal debito – nel segno dell’“austerità” – crea nuove sofferenze urbane nelle «periferie dolenti». A Firenze la polarizzazione delle risorse economiche nell’1% dello spazio urbano, tirato a lucido e usato come mero strumento di accumulazione e finanziarizzazione, ha valenza didascalica: a dispetto della propaganda renziana basata sulla necessità di un ribaltamento del vecchio sistema economico-politico che erodeva risorse a danno dei “giovani”, il «restyling» di via Tornabuoni fortemente voluto dallo stesso Renzi, è stato finanziato con un mutuo a lungo termine. Proprio il contrario di quanto sbandierato nei salotti televisivi. «Tutto quello che vedi è in vendita», ricordava uno striscione sulla ringhiera del piazzale Michelangelo da cui si offre la vista di una città ridotta a puro valore di scambio. La mercificazione si attua prioritariamente attraverso la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato. La cittadinanza viene espropriata del fondativo diritto alla proprietà collettiva, osso della società civile e speranza per la sua rifondazione come avverte da anni Paolo Maddalena[10]. L’alienazione degli edifici pubblici rientra tra i principali elementi di pauperizzazione delle città italiane. Nel solo centro storico fiorentino sono centinaia di migliaia i metri quadri in vendita e in trasformazione, spesso in edifici di valore monumentale dei quali è negata la disponibilità sociale, come illustra Daniele Vannetiello nel saggio dedicato alla Firenze intramuros. La loro vendita vede tra i maggiori acquirenti una compiacente Cassa depositi e prestiti Spa (su cui ritorna Berdini nel capitolo che segue) e nel post-Renzi assume i toni grotteschi del “Florence, city of the opportunities” (sic): operazione propagandistica che vede il neosindaco Nardella vestire l’abito dell’agente immobiliare per promuovere edifici pubblici (ma anche privati) presso le fiere internazionali del real estate. È la parodia della politica urbana, che si sovrappone al mercato immobiliare, e con esso coincide. I servizi alla cittadinanza, mercificati e privatizzati, drenano enormi ricchezze pubbliche. Rappresentano un non secondario aspetto della città iniqua: forniscono servizi peggiori ai cittadini più “periferici”, mentre costituiscono uno dei favoriti finanziamenti occulti della politica. La privatizzazione dell’Ataf, il servizio comunale di autotrasporti pubblici fiorentini, ha avuto forti ripercussioni sulla qualità della vita cittadina. Ma il presidente della società, privatizzata nel 2012, è ora amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Mobilità sociale. Sulla mobilità veicolare si concentra in effetti il progetto “pubblico” della città, più futurista che moderno. Sottolineava Enzo Scandurra, in un recente dialogo, che l’urbanistica fiorentina si riduce ormai a due soli elementi: l’aeroporto e il sottoattraversamento Tav. Il nuovo aeroporto, fortemente voluto da Renzi presidente del Consiglio[11], adombra per mole di affari il grande nodo irrisolto della lottizzazione di Castello, come spiega nel suo saggio Antonio Fiorentino. Della resistenza civile e dei controprogetti “dal basso” al passaggio sotto Firenze del treno ad alta velocità parlano in questo libro Tiziano Cardosi e Alberto Ziparo, dando testimonianza, l’uno, del lavoro di costruzione corale del sapere critico nel comitato No Tunnel Tav, e l’altro, dell’impegno di un docente di urbanistica organico al movimento. La città desacralizzata. A Firenze – palcoscenico del “nuovo” nazionale – è fatto abuso dei concetti di città creative e smart, invenzioni strumentali all’urbanistica «ossessionata dal marketing». Le une, le creative cities, ridicolizzano l’autorappresentazione urbana tramite un “brand”, creato espressamente per la competizione globale tra città che aspirano a collocarsi in classifiche di attrattività internazionale (per sedi di expó, olimpiadi o capitali della cultura, e per gli agognati “investimenti stranieri”). In esse, eventi e grattacieli sono icone che uccidono i simboli autocostruiti. Ognuna singolarmente, ognuna alienata dal contesto, le nuove icone sono messe in campo per mascherare l’obliterazione del dato sociale nelle politiche urbane. La civitas è sostituita con un simulacro vendibile: in questa logica, nel 2012, l’affitto del Ponte vecchio ad un sodale politico del sindaco, prima dell’arrampicata a palazzo Chigi, passa come atto di normale amministrazione. Dal canto loro, invece, le smart cities – città furbette più che intelligenti, stigmatizzava Franco Farinelli[12] – incarnano il sogno delle città informatizzate: i problemi del traffico, della “sicurezza” o quelli ambientali, ognuno a sé stante, sono rimandati agli esperti di settore. Urbanisti e piani possono essere buttati al macero. In fondo, lo si è già detto, gestire la città secondo i principi neoliberisti, comporta la «de-significazione» del piano urbanistico. Nel caso fiorentino, il Piano strutturale (2011) e il Regolamento urbanistico (adottato nel 2014) – ormai privi del significato di “progetto comune sullo spazio comune” – eludono la materia pianificatoria e, infarciti di proclami, rifuggono una “narrazione” che possa contribuire al disegno della città futura. Gli strumenti approvati o concepiti nel decennio si inviluppano nella triade «mixité sociale-governance-sviluppo sostenibile»[13], valida per lenire tutti i mali della città globale, che a Firenze si declina: nel «mix di funzioni» (funzioni che tuttavia sarà il privato a determinare, come approfondiamo nel saggio dedicato ai Piani neoliberisti); nella partecipazione (risolta nella farsa dei «facilitatori del consenso»); negli ammiccamenti a una “natura in città” (lo studio delle relazioni profonde dell’ecosistema urbano è tuttavia accuratamente evitato). In contrapposizione alle “scelte” di piano del tutto avulse dal contesto ambientale e impermeabili ai suggerimenti morfologici offerti dai luoghi, Roberto Budini Gattai offre in queste pagine soluzioni convincenti e non prive di fascino. Mentre Giorgio Pizziolo costruisce l’ipotesi a scala territoriale della «città/paesaggio» nella quale le relazioni ecologiche – ambientali, soggettive, sociali – guidano il progetto futuro di una città come «luogo vivente». Il «bacio mortale»[14] dell’Unesco – che dal 1982 ha inserito nel world heritage il centro storico di Firenze – completa il quadro della desacralizzazione urbana nel segno della monocultura economicista. Il turismo, inesauribile «cash machine», estrae beni territoriali e li reinveste nelle cittadelle della finanza mondiale. Il tessuto della città storica è sottoposto a una pressione insostenibile che, ancora una volta, produce risultati nel segno dell’iniquità. La città dell’1% si realizza prioritariamente sull’espulsione dei residenti. Il centro da offrire ai media come immagine del successo del sindaco e della riuscita della città nella “competizione globale” è stato – da tempo – sterilizzato: via residenti e luoghi di aggregazione, via le bancarelle e via anche le macchine (oggi l’espulsione si attua anche attraverso una pedonalizzazione cui non faccia seguito un buon servizio di trasporto pubblico). Nei quartieri storici limitrofi al “salotto buono”, il processo di imborghesimento – nella letteratura di settore, processo definito «gentrificazione» – è in atto, e si realizza nella formula che fa coincidere il rinnovamento dei settori urbani con il rinnovamento dei residenti[15]. Laddove invece la concentrazione di popolazione migrante impedisce l’innalzamento di rango e di valore immobiliare dei quartieri centrali, la risposta dell’amministrazione risiede nell’adozione di soluzioni securitarie: l’illuminazione violenta di stile carcerario e le videocamere periferizzano alcuni settori della Firenze duecentesca (quartiere di San Lorenzo, via Palazzuolo). È l’altra faccia del modello centro-periferico che relega l’«umanità eccedente»[16] in aree non necessariamente remote. La città felice? Il capitalismo dalle nuove fattezze, del money by money, ha una sua precisa idea di città e di governo delle cose urbane. Una città mercantil-proprietaria che, individualista, indifferente alle relazioni ecosistemiche, nega la presenza attiva della cittadinanza che si autodetermina, ne nasconde i corpi, cancella le pratiche urbane con cui «gli abitanti usano e vivono lo spazio, e al contempo […] gli attribuiscono un significato e un valore simbolico»[17]. Nel capoluogo toscano un esempio, forse minore, è tuttavia indicativo: il Mercato centrale, trasformato in una batteria di ristorantini bobó (bourgeois-bohème), non risponde alla richiesta diffusa nel quartiere di luoghi di assemblea e di riunione, di cui la città di Renzi-Nardella è sempre più avara. La città comune – lo spazio urbano, le strade, le piazze, gli edifici collettivi, il suo paesaggio e la sua corona agricola – è gestita in stile privatistico, “valorizzata” con i metodi classici della produzione capitalista e i più moderni del turbocapitalismo. L’urbanistica neoliberista cala la maschera. Si accanisce sui luoghi di sperimentazione creativa, sociale e di «welfare dal basso», su ogni pratica di appropriazione collettiva di luoghi dismessi e oggi nuovamente appetiti. La sua fisionomia autoritaria si tratteggia nitida ogni volta che la legalità di un vuoto piano urbanistico viene a prevalere sulla legittimità di usi pluridecennali, autorganizzati, a servizio di quartieri poveri di luoghi di aggregazione. Le autrici e gli autori dei saggi contenuti nel presente volume sono, oltre che narratori, protagonisti di quella decennale sperimentazione di ipotesi teoriche ed operative che abbiamo definito “urbanistica resistente”: un complesso di azioni animate dalla riflessione critica – di segno politico-tecnico, ecologico ed antropologico – sull’involuzione neocapitalista della città e sullo smantellamento in atto delle basi stesse della civiltà urbana. La loro esperienza dà linfa alla convinzione che sia ancora possibile progettare una città della gioia, una città felice. Un progetto che implica la costituzione di una nuova civitas avvertita delle relazioni col territorio, che dia spazio al mutualismo senza soffocare i conflitti, che incoraggi l’autorganizzazione e l’autogoverno delle risorse naturali, economiche e demiche[18]. In questo progetto tutti sono chiamati all’impegno in prima persona, ad essere il corpo vivo della città, presente nelle piazze e nei luoghi di rinascita collettiva, e a sostenere pratiche di cura e di accoglienza per rafforzare le convivenze possibili e ricostruire il legame sociale indebolito. Impegno non limitato, come talvolta accade, a mantenere «vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro», ma capace – sono ancora parole di Simone Weil – di rifondare «città umane [che…] avvolgono di poesia la vita di coloro che vi abitano»[19]. A partire da questa resistenza corale si invera l’altra idea di città. Il libro è stato discusso e progettato collettivamente dal Gruppo Urbanistica della lista di cittadinanza perUnaltracittà (Puc). I suoi capitoli descrivono il quadro teorico e politico, le vicende urbanistiche, l’impegno e il lavoro di opposizione, le ipotesi progettuali condivise. Ma il libro non mira a raccontare dieci anni di storia urbanistica. Esso registra i modi della resistenza vissuta e ne delinea quelli futuri, raccoglie i risultati di una ricerca-azione di durata decennale che ha favorito e messo a frutto capacità relazionali e competenze nell’ascolto, abilità pratiche e organizzative con attenzione al calendario politico etc. Così la narrazione, da una parte, affonda nella memoria personale e collettiva, mentre dall’altra attinge alle fonti documentarie consentanee alla ricerca in urbanistica. Ossia alla produzione del Comune (delibere, atti, determine etc.) e ai piani urbanistici (studiati con attenzione e puntualità anche per la loro traduzione alla cittadinanza attiva “non esperta”); all’informazione a stampa; alla controinformazione. E, infine, sui materiali autoprodotti per l’opposizione in Consiglio: dai comunicati stampa alle pubblicazioni cartacee e digitali, disponibili sul sito della lista consiliare. Il sito è tutt’oggi attivo e costantemente aggiornato dal “Gruppo Comunicazione”: nelle pagine del libro, Cristiano Lucchi ne rivela i segreti che non di rado hanno permesso di far breccia nel muro di silenzio dell’informazione ufficiale. Maurizio Da Re, segretario “in palazzo”, estrae dalla mole documentaria prodotta quegli atti consiliari, interrogazioni e domande di attualità che hanno avuto maggiori ripercussioni sull’andamento della politica cittadina, dando talvolta vita a vicende trasposte nelle aule del tribunale. Infine, lo spirito dell’azione politica della lista è illustrato dalla consigliera Ornella De Zordo che ha instancabilmente intessuto relazioni tra il palazzo, i quartieri cittadini e il territorio metropolitano, mettendo in rete l’esperienza fiorentina con le analoghe che cominciavano a dispiegarsi a scala nazionale. Note [1] Per agevolare la lettura, con “perUnaltracittà” (o con la relativa sigla Puc) denominiamo la lista consiliare nell’intero periodo in esame, benché nella prima legislatura (2004-2009) essa assumesse il nome di “Unaltracittà/Unaltromondo”. [8] Franco La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi, Torino, 2015, p. 41.
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