La violenza maschile sulle donne [di Maria Francesca Chiappe]
E’ difficile dire se si tratti di un fenomeno nuovo o sia sempre esistito e venga fuori oggi da un lato con un crescente, pur basso, numero di denunce da parte delle donne-vittime, dall’altro con una maggior attenzione da parte dell’opinione pubblica. Non sono una sociologa e non lo so. Però i dati di cronaca dicono che la violenza di genere – ti picchio, ti umilio, ti uccido in quanto sei una donna – è una vera e propria piaga sociale. Colpisce l’intera società; le persone culturalmente più o meno attrezzate; gli anziani, i giovani e giovanissimi; le donne senza lavoro e quelle autonome; le donne sottomesse e quelle libere. Senza distinzioni. Il che rende il problema ancora più grave. Dina Dore, uccisa a 38 anni davanti alla figlia di otto mesi solo perché, avendo scoperto che il marito aveva l’amante, si era rifiutata di far finta di niente e non ne voleva sapere di perdonare il fedifrago, certamente neanche sospettava quali progetti criminali abitassero la mente del padre di sua figlia. Ed è stata colta di sorpresa perché le minacce, pur esplicite, del marito (“vengono, ti prendono e neppure te ne accorgi”; “la prossima volta brucio te” ) evidentemente non l’avevano messa in allarme: una donna non pensa che il marito traditore possa arrivare a farla ammazzare. E , per come ho capito fosse Dina Dore, se avesse intuito certamente avrebbe reagito: lo avrebbe detto alla sorella, ai fratelli ,alle amiche, ai genitori. Quindi: io penso che Dina Dore soffrisse per il tradimento, per di più a pochi mesi dal parto; penso avesse buttato fuori dalla camera da letto il marito; penso volesse mandarlo via da casa e dalla sua vita. Ma penso non sospettasse nulla di quello che poi sarebbe successo. Invece: probabilmente dobbiamo imparare, tutti, uomini e donne, mogli, madri e figlie, colleghi e colleghe, amici e amiche (perché questo è un problema della società e non delle singole donne che lo vivono sulla propria pelle) a interpretare i segnali che certi uomini danno. Perché solo una rete di comprensione e solidarietà potrà dare la forza a chi è vittima di violenza domestica di chiedere aiuto e salvarsi. Se pensiamo che il problema sia solo di chi prende botte e ingiurie non abbiamo capito niente. La realtà è che può capitare ovunque e a tutti. Non è una questione di debolezza caratteriale né di capacità economica né di livello culturale o sociale. Dina Dore non era una donna sottomessa, non aveva sopportato in silenzio maltrattamenti fisici e psichici. No. E forse è stata proprio la sua ribellione al tradimento a costarle la vita. Ma in tanti altri casi che la cronaca sottopone alla nostra valutazione ci sono donne che sopportano – e sopportano per anni – umiliazioni e botte in nome dei figli, del matrimonio, di se stesse, in un circolo vizioso claustrofobico che le spoglia della dignità e che in alcuni casi le porta alla morte, in altri, molti altri casi, le rinchiude in una vita di sopportazioni finalizzate unicamente alla sopportazione di altre umiliazioni. Ecco perché bisogna parlare di maltrattamenti, di femminicidio, di violenza di genere. Il termine femminicidio sarà pure brutto – in un recente dibattito la psichiatra Nereide Rudas si è rifiutata di usarlo, preferisce muliericidio , perché la parola femmina nel nostro vocabolario ha un’accezione negativa – ma è ormai entrato nel linguaggio comune ed è servito, e serve, a diffondere nell’opinione pubblica la consapevolezza dell’esistenza di una piaga sociale. Sgombriamo subito il campo. Non tutti gli omicidi nei quali una donna è uccisa da un uomo sono femminicidi: se un rapinatore, uomo, entra in banca e ammazza la cassiera, donna, non é un femminicidio. I femminicidi sono considerati tali quando la donna viene uccisa dall’uomo in quanto donna: ci sono gli assassinii misogini realizzati per odio contro le donne; quelli sessisti commessi perché gli uomini credono di avere diritti sulle donne; quelli dovuti ad atteggiamenti e pratiche sociali misogine. Le leggi recenti probabilmente è vero che affrontano la violenza di genere sotto il profilo dell’allarme sociale e non dell’aiuto alle donne, però è innegabile che si stanno facendo passi importanti. Fino a pochi anni fa i lividi sui volti delle donne venivano registrati come infortuni domestici e quella casistica andavano a gonfiare. Perché questo dicevano le donne picchiate dal marito ai medici del pronto soccorso: “sono caduta”. E se si fosse fatto uno studio sarebbe uscito fuori un precarissimo equilibrio femminile, nel senso proprio dello stare in piedi. Le motivazioni che portano a negare la realtà sono note – vergogna, senso di colpa, paura di ammettere il fallimento, in certi casi non saper dove andare – ma c’è da dire che tante, troppe volte, le donne che trovano il coraggio di presentarsi davanti alla forze dell’ordine si sentono dire: “signora faccia la pace, ci riprovi, sa che conseguenze porta una denuncia?”. Così, quella donna distrutta che aveva raccattato tutte le forze vincendo la convinzione di meritare quella violenza, si ritrova svuotata, torna a casa e ricomincia daccapo. E’ vero che anche tra le forze dell’ordine la mentalità sta cambiando (in un recente dibattito a Cagliari su questi temi una poliziotta ha mostrato un filmato significativo che ha vinto molti importanti premi) ma la strada è ancora lunga. E dire che il problema è diffuso: basti pensare che le statistiche dicono che subisce maltrattamenti in Italia una donna su tre. E sono donne di tutte le età, classi sociali, formazione scolastica, professione, cultura. Dalla coercizione psicologica, al condizionamento economico e sociale passando per le botte, i calci e gli schiaffi la violenza ha tanti volti. Ed è sempre un esercizio di potere su un’altra persona, uno squilibrio tra uomo e donna. Molte pensano che la gelosia e il controllo siano forme d’amore e in nome di quello – che non è amore – sopportano umiliazioni, inganni, intimidazioni, manipolazioni, minacce di sottrazione dei figli, privazione del denaro. Perfino rapporti sessuali: della serie “ mi fa schifo ma se mi rifiuto non mi lascia i soldi per la spesa o se la prende con i bambini”. I giornali hanno un ruolo molto importante. Perché i giornali contribuiscono a cambiare il linguaggio e anche nel linguaggio può esserci violenza, anche nel linguaggio può esserci discriminazione di genere. Quindi, l’attenzione al linguaggio è importantissima. In quest’ottica si è inserita qualche tempo fa la campagna mediatica della scrittrice Michela Murgia grazie alla quale i giornali con sempre meno facilità parlano, per esempio, di delitto passionale quando un uomo uccide la compagna o la ex. Delitto passionale, passione: sembra quasi una giustificazione quando non un atto d’accusa nei confronti della vittima (colpa sua, se l’è andata a cercare, lui la amava). No: davanti a una donna morta ammazzata non c’è passione tantomeno amore, c’è solo sopraffazione. Le statistiche sul femminicidio fanno paura. C’è uno studio dell’osservatorio sociale sulla criminalità in Sardegna ,dell’Università di Sassari, condotto da Antonietta Mazzette, sugli ultimi dieci anni in Sardegna. Innanzitutto: dei delitti le donne sono più vittime, il 17 per cento, che autrici, il 6 per cento. Il 45 per cento degli omicidi è concentrato su Cagliari, il 22 a Sassari ma, considerando l’incidenza sulla popolazione, è Nuoro ad avere il tasso più elevato. La tarda serata e la notte sono gli orari più pericolosi, verosimilmente perché ci sono meno rischi per l’assassino e la vittima è maggiormente vulnerabile. Questo studio mette in rilievo una differenza tra omicidi di uomini e di donne: per uccidere maschi è prevalente l’uso di armi da fuoco; per uccidere le donne si usano coltelli e martelli, le cosiddette armi improprie. Per uccidere l’uomo ci si tiene a distanza, per la donna c’è il contatto fisico. Un altro dato che rileva dalla statistica è il rapporto tra vittima e autore: il 45 per cento degli omicidi di donne in Sardegna è per mano di partner o ex mentre gli uomini uccisi da una compagna sono il 3 per cento e molte volte si tratta di reazioni disperate alle violenze dell’uomo. Le donne sono più soggette degli uomini anche alla violenza omicida da parte di altri familiari: negli ultimi dieci anni in Sardegna il 27 per cento delle aggressioni totali omicide contro il 17. Questa statistica mette in luce un’altra circostanza: anche in Sardegna è in diminuzione il numero complessivo degli omicidi ma, all’interno di questo dato, il numero di femminicidi è costante. Il dato è nazionale: dal 1991 al 2011 è calato il tasso di omicidi ma è salita la percentuale di donne ammazzate, prima era l’11 per cento, ora supera il 25. Anche il caso di omicidi di donne in Sardegna va inserito in questo contesto, il che porta a riflettere sul fatto che la violenza omicida contro le donne (a dispetto della cultura matriarcale, del codice barbaricino etc etc) non è un fenomeno recente ma antico: c’è sempre stato ed è emerso ora nel dibattito pubblico perché c’è stata una generale diminuzione del numero complessivo di omicidi. Questo non significa che il fenomeno debba essere sottovalutato, anzi: bisogna continuare con la diffusione dei dati per far crescere sempre più la sensibilità culturale che sta cominciando solo da qualche tempo a suscitare un immediato impatto mediatico. La violenza sulle donne, dunque, non fa distinzioni di età, titolo di studio, religione o ceto sociale. Oltre il 60 per cento delle vittime è sposata, i maltrattamenti sono commessi dal marito oppure dall’ex compagno per l’80 percento, quasi sempre per problemi legati all’abuso di sostanze alcoliche. In qualche caso dai familiari. Lo stalker ha in media trentotto anni, ha una scarsa intelligenza emotiva, può fare qualsiasi lavoro, dall’operaio all’avvocato. E, comunque, il reato di maltrattamenti è difficile da provare per arrivare a una condanna. Mi spiego: se rubo un cellulare ho commesso un furto, quello è, e c’è poco da discutere. I maltrattamenti, lo dice la parola stessa, sono una pluralità di comportamenti. Che non necessariamente sono schiaffi o pugni ma sono spesso violenze psicologiche: “se non fai questo non ti do i soldi, se non fai quest’altro niente vacanze”, fino alle pretese sessuali che ancora non sfociano in vere e proprie violenze. Quindi, all’interno di una relazione coniugale, non é facilissimo. Però si può si fare, si può riuscire ad arrivare alla condanna del marito o del compagno violento. Ma io direi che il problema dei maltrattamenti non è solo una questione fra uomo e donna, è piuttosto un problema tra parte debole e parte forte all’interno di un nucleo familiare o di convivenza o anche lavorativo. In un giornale come il mio ci sono uno o anche due articoli al giorno legati a denunce o a processi su maltrattamenti. E la casistica è variegata: c’è la moglie picchiata dal compagno ubriaco , la donna molestata dal marito che non vuol essere lasciato, i figli che picchiano i genitori anziani per soldi, i bambini denutriti, padri e madri in via di separazione che litigano sui figli minorenni, gli operatori delle case di riposo che pestano gli anziani ricoverati e i disabili (abbiamo visto che cosa è successo all’Aias di Decimomannu) , il cosiddetto mobbing – un reato che in Italia non esiste – del datore di lavoro sulla lavoratrice e lo stalking che, invece, ora è un reato previsto dal codice. Direi, insomma, che il problema è delle violenze del più forte sul più debole, siano donne, anziani, bambini, dipendenti. E denunciare non è facile perché non sempre si riesce a ottenere giustizia. Ma, prima di chiudere, vorrei sottoporvi un altro problema, ancora poco discusso: la tutela dei figli delle vittime di femminicidio. Se una donna viene assassinata dal marito il figlio perde entrambi i genitori: uno è morto,l’altro in carcere. C’è qui Graziella Dore e lei, che si è battuta e si batte come una leonessa perché Dina abbia giustizia (le sentenze ancora non le bastano, finché avrà fiato chiederà che venga individuato anche il secondo killer) solo per tutelare la figlia di Dina non ne parla. Ma il problema c’è e lo vive: battaglie giudiziarie continue sull’affidamento della bambina. Graziella deve affrontare in tribunale i ricorsi dei familiari del cognato. Ecco, io direi che serve una legge chiara perché non è giusto che una persona come Graziella Dore, e con lei la sua famiglia, debba sopportare costi emotivi ed economici e debba aggiungere stress a una situazione già difficilissima. Non è giusto. Qui ci sono politici che hanno ruoli importanti, la deputata Caterina Pes, in platea la consigliera regionale Annamaria Busia che sta lavorando a una norma proprio su questo tema. Ebbene: è il caso di mettere mano alle leggi per tutelare la figlia di Dina Dore e le bambine che vivono situazioni analoghe. Presunzione di innocenza per l’imputato, il padre della bimba, fino a sentenza definitiva, certo, ma che il “durante” si trasformi in una battaglia legale infinita non è accettabile. Quando è scoppiato il caso di Vanessa Mele, e l’avvocata Busia lo conosce bene, la politica è intervenuta ed è stata modificata la norma del codice civile per impedire che il marito assassino godesse della pensione di reversibilità della moglie che aveva ucciso sottraendola alla figlia. Ottimo. Ora serve una legge per le bambine come Elisabetta e le famiglie come quella di Graziella che hanno diritto a un minimo di tregua,non dico serenità. Anche se, con una zia come Graziella Dore e una famiglia come la sua, sono sicura che quella bambina troverà anche la serenità che hanno cercato di portarle via insieme alla mamma.
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