Facebook, la piazza del nostro tempo [di Nicolò Migheli]
La Collina 3/2016. Il 4 di febbraio del 2016 Facebook ha compiuto dodici anni. Concepita come rete telematica per mantenere in contatto ex studenti di college ed università, ha raggiunto il miliardo di utenti nel mondo. Nessuna delle altre reti sociali nate dopo può contare su di un successo così ampio. Il fondatore Mark Zuckerberg è diventato plurimiliardario creando un bisogno che affonda le sue ragioni nella spinta alla socialità, allargandolo a dimensioni globali. Per entrare in Fb, basta uno smart phone. Tanto che le reti sociali hanno contribuito alla riduzione del digital divide. Con un limite, per molti degli utenti è l’unica forma di informatizzazione; non si avventurano fuori dal recinto della piattaforma. Sia come sia, chiunque utilizzi quello strumento può entrare in contatto con “amici” che stanno dall’altra parte del mondo. Persone che pur non essendosi mai incontrati fisicamente imparano a conoscersi. È pur vero che la modalità dell’interazione induce ad una rappresentazione che spesso poco ha a che fare con quel che si è realmente. In realtà è così solo in parte. La piattaforma è schiacciata su di un presente ossessivo, tende a seguire il fatto del giorno, le passioni del momento, induce spesso a risposte poco riflessive, rivelando quel che si è molto di più rispetto a quel che si continua a definire vita “reale”. La divisione tra il virtuale della rete e il reale dell’esistenza quotidiana è caduto. I due piani non sono più in alternativa ma diventano, per dirla con Erving Goffman, il completamento della vita come rappresentazione quotidiana. A differenza di quel che affermava il sociologo americano dove la condizione è il contatto fisico tra gli interlocutori, Facebook lo si usa in solitudine, si hanno davanti solo uno schermo ed una tastiera, che danno l’illusione di privatezza che in realtà è inesistente. Tanto che alcuni esprimono giudizi che stenterebbero a dare se l’interlocutore fosse presente fisicamente. La supposta virtualità dello strumento può abbassare i freni inibitori. Quel che si scrive, gli articoli, i video o le foto che si condividono, raccontano di se stessi più dei discorsi fatti a voce. Descrivono un profilo che è definizione del sé. «Più che a una famiglia o a un club, più che a qualunque classe o sesso, più che a qualunque nazione, l’individuo appartiene ai raggruppamenti, e gli conviene dimostrare che ne è un membro in regola» La definizione di Goffman ben si addice anche a Facebook. Un raggruppamento che tende ad essere stabile in un nucleo duro, mentre altri contatti fluttuano in entrata o in uscita. È stato calcolato che l’algoritmo che governa la rete, nonostante le migliaia di “amici”, riesca a tenere in costante contatto non più di cento persone. La ragione non è solo matematica. Come nella vita di tutti i giorni si tende ad avere rapporti con chi ha medesime visioni del mondo. Una sorta di “Cerchio caldo”, secondo la definizione di comunità che ne diede il sociologo svedese Göran Rosemberg. In realtà la frequentazione della piattaforma può essere rafforzativa della coesione del gruppo o anche disgregativa, dipende dall’uso che se ne fa. Anche amicizie di vecchia data possono naufragare per un post o un giudizio avventato scritto sotto l’incalzare degli avvenimenti o dei giudizi altrui. Uno strumento, quindi, che allo stesso modo può migliorare o incrinare la propria reputazione. A conferma che la realtà contemporanea si nutre di immaterialità e che questa diventa componente essenziale del proprio essere. La popolarità e la possibilità di entrare in rapporto con migliaia di persone non è sfuggito alle aziende, ai partiti, alle agenzie governative che ne fanno grande uso per implementare la propria popolarità, intercettare potenziali clienti o rafforzare il consenso verso determinate politiche. Il linguaggio è specchio della realtà, non a caso video o articoli particolari che vengono condivisi migliaia di volte vengono definiti virali. Quelli che erano i maître à penser, oggi per l’immediatezza dei messaggi, per la rapidità dell’esserci, si chiamano influencer. Metafore epidemiologiche per descrivere la profondità nella determinazione o creazione del senso comune. Se il maître à penser per far passare il proprio messaggio aveva bisogno di riflessione e razionalità, gli influenzatori tendono a toccare altre corde, dove l’emotività e l’indignazione possono essere le caratteristiche connotanti della comunicazione. L’affollarsi dei messaggi provoca il rumore e spesso l’unica possibilità di essere visti e letti è “alzare” il volume della comunicazione. Niente di nuovo da quanto già sperimentato dalla pubblicità o da certi programmi in televisione, ma con una profondità superiore data dall’illusione che la piattaforma consenta una comunicazione uno a uno. Che si possa intervenire e commentare esprimendo il proprio consenso o dissenso. Per certi versi Facebook certifica una tendenza di lunga durata della modernità: la caduta del principio di autorità. Chi, ad esempio, ha già un ruolo forte nella società, mal si adatta a seguire le evoluzioni e le interazioni della rete. Confrontarsi con persone che spesso esprimono comportamenti ostativi non è facile. Anzi si corre il rischio di attirare i troll, personaggi che cercano di acquisire visibilità contestando e criticando la personalità famosa o distorcendone i messaggi, introducendo argomenti estranei al ragionamento principale. Tanto che Umberto Eco ebbe a dichiarare che le reti sociali avevano aperto la porta a legioni di imbecilli. In realtà quelle persone sono sempre esistite, solo che la telematica ha dato loro la possibilità di oltrepassare gli spazi ristetti dell’autobus o del bar. Nello stesso tempo però, molti personaggi famosi sentono la necessità di essere dentro una piattaforma che garantisca una ulteriore notorietà e per farlo hanno affidato il proprio profilo pubblico a dei professionisti, così da diminuire i rischi. Gianni Morandi, ad esempio, ha aperto un suo profilo Faceboock e lo gestisce direttamente. Profilo seguito da 1 milione e 200 mila persone. Qualche anno fa, dopo una strage in mare di 900 migranti, Morandi scrisse un post in cui criticava la xenofobia degli italiani. Il post ricevette 89.367 mi piace, 25.641 condivisioni, ma venne investito da una sequela di critiche ed insulti. Il cantante non si scompose e rispose ad ognuno dei suoi interlocutori, spiegando e concludendo con un “Ti abbraccio”. Smontando così quella carica di frustrazioni e rancore, mostrando di essere abile nel Personal Branding, come dicono gli americani, nella capacità di accrescere e mantenere la propria reputazione personale. Facebook non è solo questo. Per molti utenti sta diventando l’unica fonte di informazioni; questi non leggono giornali, guardano poca televisione, convinti che sia una informazione che rispecchi la comunicazione dei circoli del potere. In rete cercano informazioni alternative, gran parte di queste però spesso non sono verificate, o meglio costruite a posta per disinformare e manipolare. Ecco perché su quella piattaforma si affollano “notizie” a volte inventate, che però rendono soldi a chi le scrive. È il fenomeno del click baiting, che consiste nel pubblicare articoli con un titolo che attiri come: “Clicca per vedere cosa è capitato a quest’uomo mentre…”. Pratiche di questo tipo partono da certezze consolidate. Gran parte degli utenti della rete leggono solo i titoli o si fermano a poche righe dello scritto, però entrano nel sito, vengono investiti da banner pubblicitari. Una manipolazione costante dell’opinione pubblica che ha contribuito molto al rafforzarsi della xenofobia, a divulgare informazioni agiografiche sul fascismo, tanto da far temere per le sorti della democrazia. Al lato di queste manipolazioni esiste una attività di debunking, ovvero confutare le falsità con dati scientifici e considerazioni razionali nel tentativo di smontarle. Operazione difficile perché si oppone razionalità a emotività e spesso quelle bufale vengono accettate perché sono rafforzative dei pregiudizi. Le stesse informazioni su terrorismo o sulle guerre in atto, il più delle volte prodotte da agenzie che non sono neutrali tra le parti in conflitto, sono costruite per conquistare cuori e menti verso la propria parte. Un compito immane per chi voglia farsi una idea che sia la più vicina alla realtà dei fatti. Se da una parte Facebook si sta dimostrando lo strumento per orientare l’opinione pubblica, dall’altro permette a gruppi e tematiche che prima avevano scarsa visibilità di essere conosciuti e attirare a sé nuovo consenso. Le questioni ambientali ad esempio, in questi anni stanno conoscendo grande notorietà anche per merito delle reti sociali. Facebook è la piazza del nostro tempo, integra la socialità tradizionale. Si possono fare ottimi incontri o entrare in relazione con aspetti sgradevoli dell’esistenza. Basta esserne consapevoli. Come per gli altri luoghi d’altronde.
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