Riflessioni sul Mediterraneo ai tempi del «Califfo» [di Mario Rino Me]

ME

Pubblichiamo per gentile concessione dell’Autore la sua analisi pubblicata  con il corredo di un ricco apparato iconografico nel numero di marzo 2016 della Rivista Marittima. Nel ringraziarlo ricordiamo che l’Ammiraglio Me è stato Relatore nell’iniziativa “Il Mediterraneo un ponte tra popoli” organizzata dal FAI Sardegna, www.sardegnasoprattutto.com , LAMAS, la Rivista La Collina a Cagliari Lunedì 15 febbraio nella Sala conferenze dell’Ammiragliato (NdR).

Primo piano. Da qualche anno il contesto di sicurezza si dimostra tanto carico di precarietà, paure e ambiguità e, come in un gioco di specchi, di confusione e imprevedibilità. Come diceva F. de La Rochefocauld «même le pire n’est pas certain». Dinamiche incalzanti e intrecciate nonché grandi cambiamenti, ci fanno vedere che la Storia dei nostri luoghi ha voltato pagina. I deficits securitari di fondo dello spazio trans-Mediterraneo che potremmo definire continente liquido abitato in periferia sono conosciuti: ambiente frammentato, muro Nord-Sud delle tre linee di frattura politica-economica-demografica che, intrecciandosi, danno luogo a una pressione migratoria.

Li possiamo catalogare come costanti (1), cui si sovrappongono ora delle dinamiche scatenate, sostanzialmente, da fattori principali e derivati (flussi migratori, modalità forti ovvero terroristiche di perseguimento di obiettivi strategici facilitata da una «paralisi globale» della governance, circolo vizioso delle divisioni confessionali con la sottospecie degli stati in dissoluzione o in difficoltà, e infine, ruolo di attori esterni) (2). Il tutto è contornato da una notevole diffusione di armi, vuoi per alimentare i conflitti dove sono in gioco specifici interessi di parte, sia per l’incremento delle spese per la propria sicurezza. Gli ultimi anni si sono rivelati strategicamente intensi, e la navigazione nel mare  grosso delle acque internazionali battute dalla crisi sistemica delle relazioni internazionali è tutt’altro che tranquilla.

Il Mediterraneo dei cambiamenti tettonici di oggi risente indubbiamente del passato, come pure della situazione contingente e mutevole di questi giorni. Non c’è dubbio che dobbiamo sforzarci a comprendere le nuove dinamiche, ma anche i sussulti del mondo arabo, alla radice di quella che già nel 2005 allo IHEDN, un mio maestro, l’ammiraglio Jacques Lanxade definiva come la «montée de l’Islam». In breve, maggior attenzione, nervi saldi e lungimiranza. Nei suoi Quaderni, descrivendo la crisi nazionale che portò alla nascita del fascismo, A. Gramsci aveva fotografato una situazione che, mutatis mutandis, vale anche oggi. Egli scriveva «la crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati (3)».

Contestualizzando lo scenario, Hillary Clinton, ammetterà la paternità dei mostri che ci stanno tormentando da oltre tre quinquenni, Al Quaeda e l’auto-proclamato Stato Islamico (4). Come già avveniva ieri, il Mediterraneo di oggi è la cerniera di ben tre continenti e, pertanto, uno snodo di realtà separate ma non separabili, delle loro contraddizioni e tensioni che la Storia non è riuscita a risolvere. La spiralizzazione negativa delle Primavere (purtroppo non assistite dall’esterno), con il deciso aumento delle violenze tra clan e confessioni diverse, in specie nei paesi mosaico, ha via via fornito appigli e opportunità a gruppi fanatici di sedicenti jihadisti lungo l’arco a sud del Mediterraneo e in Medio Oriente.

Di rilievo il suo modello operativo, oramai consolidato. Il gruppo fanatico agisce, con schemi operativi al contempo brutali («trucidare per comunicare» (5) ed efficaci nell’attuale fase di esitazione della Comunità Internazionale (IC). Insomma, la miscela di ideologia e terrorismo va ben oltre il nazionalismo arabo risentito di una volta contro Israele, e le ragioni tradizionali, di marca ciceroniana, del pro aris et focis, tipiche del movimento talebano.

I vuoti di potere esercitano una forte attrazione magnetica per i militanti del fanatismo politico a fini religiosi, che padroneggiano sia le pratiche militari che le attività ordinarie e criminali, secondo il modello temprato con la lotta armata della «criminalizzazione degli spazi», con una piena padronanza di metodiche criminali, militari e di vita ordinaria, che concorrono a dargli la vantata connotazione statuale. Di fatto, i profitti del traffico di droga e altro vengono reinvestiti per ampliare il raggio d’azione, aumentare le capacità operative e corrompere funzionari e politici. Il che concorre all’erosione degli spazi residuali di sovranità e al crollo del tessuto sociale.

L’aumento impressionante dei terroristi militanti di Daesh, per citare l’esempio più appariscente, dà forma a un tipo di minaccia multiforme ed elusiva, che ha acquisito la capacità, per ampiezza e letalità, di rappresentare una sfida strategica per la comunità internazionale. Inoltre, la sua efficace legione straniera di pendolari e la diffusione di gruppi affiliati che hanno giurato fedeltà nelle sue provincie, quali l’Afghanistan, la Nigeria, l’Egitto e la Libia, ha messo in atto una sorta di moltiplicazione dei fronti e delocalizzazione in franchising, per disperdersi e riconfigurarsi.

Il suo blitz in MO, surclassando le organizzazioni concorrenti, ha causato la frantumazione delle frontiere in una vasta area, che al culmine della fase espansiva ha raggiunto dimensioni da stato medio Europeo, e ha offerto l’occasione per proclamare il Califfato. Questa aggregazione si riflette adesso sul nuovo marchio che, partendo dall’epicentro iracheno con l’aggiunta di un generico Levante, si è consolidato in Siria, diventando, alla fine, IS. Proprio le vicende di quest’ultimo periodo rafforzano la nozione di spazio Allargato, esteso all’hinterland, non incluso nell’acronimo Middle East North Africa (MENA), nato nel mondo finanziario occidentale per raggruppare le economie Mediterraneo-Arabe. L’eccesso di semplificazione non aiuta a comprendere le complessità. Senza una visione in profondità che, nelle assonanze della lingua francese, legano, nella prospettiva della Sponda Sud, il padre (il deserto del Sahara) alla Madre (il Mare), si perde la visione di insieme, come si può desumere dai grafici dei flussi . Ma andiamo ad analizzare la situazione approfonditamente.

La situazione à vol d’oiseaue i nuovi approcci. Affetta da una corsa al riarmo (in specie Paesi del Golfo e Arabia Saudita) e crisi di vario tipo (legame stato-nazione, e scontri etnico-politici-religiosi, in breve di identità), la regione è divenuta instabile e, in due Paesi chiave, Libia e Siria entrambi cerniera, la situazione è oramai critica. Se, da un lato, la Libia unificata durante l’era coloniale Italiana, raccorda Maghreb e Mashreq, la Siria, dall’altro, rappresenta il terreno di scontro tra due storici rivali regionali: Porta verso il Medio Oriente per l’Impero ottomano e Ponte verso il Mediterraneo per l’impero Persiano; nella storia recente, si è venuto ad aggiungere il ruolo di testa di ponte, per l’Unione Sovietica prima e, in seguito, per le Forze Armate russe. Su di essa dunque si scarica gran parte del potenziale di tensione dei due archi di crisi, dell’Est Europeo della Guerra Fredda e del Mediterraneo Allargato. Peraltro, Libia e Siria appaiono l’espressione simbolica in chiave moderna di un precedente storico, quello del «grande gioco» nell’Asia centrale del XIX secolo.

Qui «le guerre civili di lunga durata generano un ambiente sempre più criminalizzato, popolato da bande di ladri, sequestra tori che operano con formazioni di origine militare» (6). Difficile raccapezzarsi senza buone dritte!  In Libia, una crisi politica si è intrecciata con problemi di terrorismo e di sicurezza interna (proliferazione milizie (7), aspetto della «dialettica politica armata») e col fenomeno migratorio. Dopo estenuanti negoziazioni tra i rappresentanti dei due Parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk, e colpi di scena si è arrivati all’approvazione del tanto atteso governo di unità nazionale, sponsorizzato dalle Nazioni Unite. Questo risultato, strumentale alla soluzione della lunga guerra civile, mira a definire un percorso per la stabilizzazione del Paese. Trova eco nella risoluzione 2259 (8).

Nel frattempo, sfruttando il vuoto creato dai due governi in conflitto, Daesh ha aumentato la sua impronta sul terreno, consolidandosi nel Fezzan, a Sabatra, Sirte e Cirenaica. L’incursione di aerei Statunitensi del 19 febbraio contro i jihadisti di Daesh riuniti a Sabatra ha segnato l’apertura del fronte libico. Non è da escludere, viste le sensibilità locali, una ripercussione sul processo di costruzione politico-istituzionale e sulla stabilizzazione. In Siria, il conflitto è già debordato in Libano ravvivando tensioni latenti. Ma come risultato di alcune importanti battute d’arresto, la porzione di territorio principale sotto il controllo di Daesh (parti occupate della Siria e dell’Iraq), si sta riducendo. Le discussioni sul periodo post-guerra civile nei due Paesi, convergono sull’integrità delle frontiere degli Stati in questione. Da un lato e per il momento, nessuno osa infatti proporre una visione per il futuro del MO, dato che porterebbe probabilmente alla ridefinizione della mappa della geografia politica.

Dal 2014 una coalizione di 62 Paesi cerca di combattere il sedicente Stato Islamico; mentre 20, svolgono attività operativa cui il nostro contribuisce con ruoli di nicchia in funzione non-combat (9), gli altri si limitano al sostegno logistico e attività umanitarie. Nel frattempo, l’Arabia Saudita, dopo aver definito l’estremismo Islamico come una «malattia» ha messo in piedi una vagamente definita Islamic military Alliance. Essa raggruppa 34 Stati Sunniti e mira a creare «un fronte unito contro gli estremisti» (10), che si può intrepretare come un fattore di dissuasione per l’opposta potenza regionale e di bilanciamento dell’asse russo-iraniano sul terreno. Non si contano più le numerose maratone diplomatiche volte a gestire le differenze al fine di massimizzare gli sforzi contro Daesh.

Sul piano diplomatico, le speranze si appuntano adesso sul Gruppo di contatto per la Libia (nato a Roma nel dicembre 2015) e sul processo di Vienna per la Siria. Quest’ultimo processo è ripartito con l’accordo di compromesso Kerry-Lavrov raggiunto a Monaco il 13 Febbraio, nei margini del tradizionale foro di scambio della SikerheitsKonferenz. I compromessi, lavorando sulle ambiguità costruttive, consentono di perfezionare i dettagli, anche se è chiaro ed evidente che questa situazione da ottovolante, se non corretta opportunamente, potrebbe peggiorare irreversibilmente. L’ultimo, in ordine di tempo, accordo Kerry-Lavrov di venerdì 26 febbraio sembra tenere; rimangono esclusi Daesh e Al Nusra (affiliato di Al Qaeda) che, non a caso si sforzano di farlo saltare.

Guardando alla periferia Sud, due importanti crisi ulteriori si stanno consumando nella striscia del Sahel, associate alla difficoltà della transizione in Mali e nella Repubblica Centrafricana. Nel complesso, l’aggregato di quanto sopra complica l’equazione della stabilità regionale. A questo punto, per finalizzare meglio qualsiasi azione, dovremmo riflettere sulle ragioni del successo di Daesh. In base alla teoria, un successo di tali proporzioni, non potrebbe esistere senza il supporto della popolazione, considerato una specie di conditio sine qua non. Come sappiamo, quest’ultima è la chiave di volta nella dialettica Insurrezione-COIN, della ricostruzione (nation/State building) laddove i fronti opposti si contendono «i cuori e le anime» del Paese assistito. Questo spiega come mai la lungamente attesa e spinta offensiva primaverile irachena per riconquistare importanti città (quali Ramadi e Mosul) sia stata continuamente rimandata. Infatti quella che ha portato alla reconquista di quasi tutta la città (risultata in gran parte minata), è stata portata avanti a fine anno.

Da allora, Daesh sembra oramai contenuto, nella sua homeland. Di fatto, ha dato prova di capacità di resilienza, senza perdere di vista la sempre attiva capacità di attrazione, frutto anche di una comunicazione allo stato dell’arte e concretizzata nel fenomeno della legione dei foreign fighters, con conseguenti paure del nemico in casa. Fra l’altro, gli ultimi attacchi di Parigi hanno dimostrato che l’impronta di Daesh in Europa è ben organizzata, diretta e letale. Nelle cosiddette guerre umanitarie (11), la linea del fronte si è spostata all’interno delle città dove, da una parte, la barbarie delle controparti irregolari è divenuta una sorta di metodo e, dall’altra, si impone una restrizione, cioè resistere alla tentazione, presente in chi interviene, di usare «l’aiuto umanitario come tecnica di controllo» (12). Senza dimenticare il tragico seguito di vittime civili causate dai danni superflui, burocraticamente rubricati come «collaterali». Quanto al modus operandi all’Occidentale, l’attuale situazione ha portato a un ripensamento sulle modalità seguite per «ridimensionare e infine sconfiggere la minaccia di Daes» (13).

Nel clima di riduzione degli impegni, conseguente ai magri bilanci delle ultime tre «guerre insoddisfacenti», in Afghanistan (etichettata come guerra necessaria) nonché in Iraq-Libia (guerre volute), e nel quadro della politica statunitense di off-shore balancing, si è affermata la nozione che la responsabilità delle guerre interne (per esempio, contro i gruppi fanatici e/o divisioni settarie) ricade sulle spalle delle rispettive regioni in cui sono scoppiate. Altro punto fermo: la presenza di «scarponi», duplice emblema di dedizione alla causa e occupazione, è esclusa. Oggi infatti, la paura di rimanere imbrigliati in impegni senza fine appare come un ostacolo insormontabile sia per vertici politici e militari, nonché per le rispettive società, ancora provate dallo sforzo dei precedenti interventi di lunga durata. In tale contesto, se si deve intraprendere un intervento militare, le potenze che lo sostengono si limitano a contribuire con capacità di nicchia, quali supporto aerotattico e nuove forme di operazioni militari, come per esempio l’impiego a distanza dei droni in tandem con le Forze speciali in loco.

Del resto, una icona del pensiero, T. Lawrence, non aveva detto «non fare di più…è la loro guerra»? Nel nostro caso, si tratta di un tipo di intervento «limitato», nel quadro di una strategia di logoramento che comporta anche altri tipi di azione (tenere traccia dei flussi finanziari e così via) creando, nel contempo, delle capacità (assistere e addestrare le truppe sul terreno, controllori di volo, forze di polizia, ecc..). Oggi, questo schema di funzionamento è diventato così strutturato per essere assunto come parte integrante della predetta strategia del rebalancing, piuttosto che di un cambiamento di tattiche. Che alla luce del ritorno dal campo, appare preciso nelle dimensioni spaziotemporali, efficace, ma non sempre perfetto (frequenti episodi di vittime civili, come per esempio ostaggi nelle strutture colpite).

Qualche considerazione (14).  Gli eventi di questi ultimi tempi hanno messo in luce l’esigenza che nel gioco delle relazioni privilegiate (bilaterali, Alleanze ecc..) occorre bilanciare l’interesse generale (stabilità) e nazionale (sicurezza-scambi economico commerciali), con la coscienza sociale (rispetto diritti). Nella dimensione dell’agire, la teoria, e la teoria ci avvisa quando ci si allontana dal giusto tracciato, l’accavallarsi di problemi complessi dovrebbe portare al coordinamento di azioni per risolverli nel quadro di una visione comune.

Di fatto invece, di fronte a una minaccia senza precedenti, ci sono dissensi e disaccordi fra i partner sulle priorità, su quali metodi seguire e sugli obiettivi politici (cosa fare dopo la debellatio di Daesh, che comporta visione prospettica, paradigmi e strategie di uscita). In altri termini, sul fronte principale manca l’unità di vedute. Inoltre, per un certo tempo, alcuni membri guida della Coalizione a guida statunitense hanno portato avanti la loro guerra da soli, trasgredendo un altro principio canonico di quella che le dottrine in vigore definiscono come «principi per la condotta della guerra»: l’unità degli sforzi. Inoltre, l’innalzamento dei toni e del volume tra la Turchia e la Russia (violazioni spazio aereo e bombardamenti su insorti e tra Turchia e Stati Uniti (bombardamenti sui curdi siriani) e la mancanza di trasparenza, hanno messo a nudo le contraddizioni che ostacolano la resa dell’insieme e creano spaccature tra i suoi membri. Ma non solo.

Infatti, come diretta conseguenza del gioco di ambiguità di alcuni partner, si è venuta a determinare una situazione tanto critica al punto che i potenziali danni superano gli interessi individuali da difendere. Peraltro, la lotta a Daesh non si può limitare alle sole milizie armate, dalle quali trae la sua forza, ma occorre perseguire anche altri assi di intervento, quali per esempio i suoi canali di finanziamento, la sua cultura rozza e antiquata, la necessità di agire in società sconvolte dalla guerra ecc… Inoltre, nella battaglia sull’ecologia sociale dei cuori e delle menti, dove le capacità soft possono assumere un ruolo decisivo, i termini del problema si spostano a lungo termine; ciò implica il coinvolgimento di attori non statuali, della società civile, degli Atenei ecc… Facilitando gli scambi, al fine di venire incontro alle esigenze della gente, si possono evitare sacche di esclusione.

L’ottenimento di un vantaggio strategico è di importanza fondamentale, al fine di sottrarre all’ideologia il suo potere di attrazione: senza politiche e azioni coerenti, una strategia efficace è inconcepibile. Dopo tutto, il concetto di strategia può essere associato a una politica in movimento, laddove la sua applicazione è una chiave per il successo. Nel contesto anzidetto, le attività militari della Coalizione sono state condotte con obiettivi, mezzi e scopi limitati; peraltro, vari partner importanti si sono gradualmente dileguati. A tal proposito, la teoria afferma che il potere aereo, specialmente utilizzato con il contagocce e non come una tempesta (alla shock and awe), non garantisce il successo. Di conseguenza, con una Coalizione che, non essendo riuscita a creare sinergie, si è rivelata, de facto, più virtuale che reale, non possiamo stupirci se questo contenimento al risparmio non abbia ottenuto risultati strategici…

La diagnosi del predetto état des lieux mette in evidenza gli ostacoli di uno scenario complesso e inedito, composto da agende in contrasto che derivano, da una parte, dal riemergere del lungo conflitto confessionale sunniti-sciiti che ha riacceso le tensioni regionali, di una serie di conflitti interni in terra araba che si intrecciano con una minaccia transnazionale che ha il suo epicentro in Medio Oriente e, dall’altra, dalle dinamiche Euro-Atlantiche nell’Europa orientale dell’epoca post-guerra fredda. Di queste, le prime due tipologie di conflitto agli estremi e le lotte interne sembrano gestibili disinnescando le tensione fra gli attori maggiori attraverso il rafforzamento della dimensione politica, diplomatica e del civismo. Per contro, la minaccia principale, vale a dire Daesh, deve essere affrontata e sconfitta con azioni militari risolute, ma non solo.

Se già, nella strana logica della Counter-insurgency, applicata a questa situazione, vale la famosa affermazione di H. Kissinger, per il quale «la guerriglia vince se non perde, (laddove) un esercito regolare perde se non vince» (15), figuriamoci contro un sedicente stato che, nell’azione esterna, combina metodi di guerriglia e militari. Daesh, come detto, pur privo di aviazione e non eccessivamente numeroso, non è stato battuto decisamente e nel territorio madre, le posizioni dei contendenti (governativi e sostenitori dell’ancienregimeda una parte e forze di opposizione moderate dall’altra) predelineano una sorta di mappa su cui impostare una dialettica negoziale di end state.

A fronte della poderosa macchina propagandistica, il cosiddetto califfato deve quindi essere sconfitto anche militarmente, in modo da distruggere la sua leggenda di invincibilità. Il che implica occupare Raqqa e Mosul: ma dove Daesh si è consolidato, le condizioni per la reconquista sono divenute difficoltose per la presenza di mine, trappole e cecchini. Qui la sfida da superare è quella di mobilitare un tale sforzo bellico e risvegliare i cuori e le menti per dare vita a una opposizione interna, precondizione per sradicarlo.

In realtà, nell’area sunnita, c’è una grande diffidenza nei confronti della politica di Bagdad: il «risveglio sunnita» del 2007 che portò al cambiamento del corso degli eventi, sembra relegato al passato, dato che i sunniti iracheni lamentano di non essere parte del discorso politico. Per cui, al fine di accelerare l’erosione di Daesh, non si è potuto fare altro che perseguire almeno un incremento del ritmo operativo. In linea con quest’ultimo principio, a partire da novembre 2015, gli Stati Uniti, la Francia e la Russia hanno incrementato i loro assetti e la logistica, intensificando il ritmo delle operazioni: i primi risultati non si sono fatti attendere. Premesso che la soluzione della guerra civile non può che passare per la politica e diplomazia, l’interazione tra le coalizioni esistenti pone l’esigenza di risolvere inevitabili interferenze sia nella sfera politica che sul terreno.

Il che implica l’impianto di interfaccia per le funzioni comando e controllo per il coordinamento delle forze, tenendo anche conto, come già detto, gli aspetti umanitari di questo tipo di intervento armato. Sul terreno, i recenti successi ottenuti da Daesh all’esterno sono controbilanciati da alcuni fatti: il territorio occupato da Daesh in Medio Oriente è quasi circondato, da un ambiente sempre più ostile, con un’Iran avviato verso una fase unitaria. In esito alle pesanti perdite subite a Kobane e Sinjar (16), Daesh ha dimostrato di aver raggiunto il suo punto culminante ed è geograficamente contenuto nella suo territorio d’origine.

Il citato metodo, applicato sul terreno mediorientale, si trova dinanzi alla necessità di organizzare un’azione congiunta di Curdi, Iracheni e altri vicini: interessi divergenti hanno reso impraticabile, fino a ora, un’azione unitaria, dato che ciascuno di questi sembra capace e disposto a difendere il proprio territorio e nient’altro. Inoltre, ciascuno degli attori esterni interessati ha i propri timori in materia di sicurezza (17).

In questa condizione, al fine di ottenere effetti significativi sulla contrazione dei tempi, risultano ancora perseguibili il rafforzamento degli scambi tra i servizi di intelligence (per esempio in materia di pendolarismo dei militanti), un uso massiccio e coordinato del potere aereo, nonché una vera lotta alla sua propaganda, a quanto risulta fatta solo artigianalmente a livello locale nelle zone occupate in Siria. Per esempio, l’isolamento della madrepatria di Daesh dalle sue ramificazioni geografiche, in modo da colpirlo da ogni parte, riducendo le sue capacità di spostare i fronti, potrebbe portare all’implosione del regime di Daesh e al conseguente inizio della stabilizzazione militare dell’asse dell’instabilità.

In breve, i limiti di Daesh, da una parte, e le restrizioni/costrizioni della Coalizione dall’altra, hanno portano a uno stato di equilibrio, su cui può incidere la costante opera di logoramento nel territorio madre. Rimanendo nell’ambito della gestione della crisi, il contenimento è un modo di gestire il rischio a breve termine, mentre oggi si cercano soluzioni a lungo termine, vale a dire l’insieme di azioni che risolvano il problema alla radice dove, come detto, manca una visione condivisa.

Questa diagnosi e gli sviluppi locali portano a concentrarsi dove c’è una condivisione di obiettivi, vale a dire la Libia. Essa è il terreno dove azione contro Daesh, a richiesta o di concerto con le autorità locali, appare la più appropriata e, in tale prospettiva, l’obiettivo da raggiungere è quello di battere Daesh in periferia e «ridimensionarlo» nel suo epicentro durante il processo siriano dopo il cessate-il-fuoco come definita a Vienna in ambito Int. Syria Support Group (18): la sua sconfitta in una diramazione periferica sfruttando overstretch, potrebbe avere significato più che simbolico ai fini della sicurezza delle attività di peace building (19).

In Libia dunque, dove sono presenti al largo due operazioni navali (Mare Sicuro e EuronavFor Med) che assicurano un’accurata conoscenza dell’ambiente (situation awareness), parallelamente all’azione politica con gli sponsor esterni e le entità clanistico-tribali in conflitto fra di loro, sarebbe opportuno dar vita a un processo inclusivo, con i gruppi che controllano le milizie che temono di essere esclusi dal discorso politico.

Risolvere la situazione libica faciliterebbe il controllo del sottostante problema della migrazione: il Paese è come una porta aperta a tutti. In questo quadro, l’attuale processo di degenerazione ci porta riconoscere che, al di fuori del focolaio principale, il contenimento, da solo non basta. In termini politico–militari è impossibile pacificare, nel senso di portare avanti attività di Peace Building senza una fase impositiva (Peace Enforcing (20)), che deve essere, beninteso, sorretta da legittimità internazionale. Da aggiungere poi che in condizioni di sicurezza critiche come quelle esistenti in Libia, i Governi assistiti necessitano aiuto esterno per imporre la legge e l’ordine, in specie quando le istituzioni sono fragili e la minaccia reale si combina con vaste aree da controllare. Senza perdere di vista l’assistenza per le economie rese fragili da anni di sconvolgimenti, come nel caso della Tunisia, per evitare la ricaduta. In breve Peace Building, comprensiva di fondi per emergenza umanitaria.

Nell’insieme, la sfida presenta cinque sfaccettature: geopolitica, diplomatica, militare, economico-finanziaria e umanitaria. In breve, si tratta di plasmare l’ambiente e, in termini politico-militari, raccogliere una forza secondo una strategia adeguata, tenendo conto che, nel vuoto che si è venuto a creare, è ugualmente necessario un buon lavoro di polizia, tipo quello normalmente svolto dai nostri Carabinieri o equivalenti forze di gendarmeria. Ma, prima che la situazione degeneri irreversibilmente, occorrerebbe una rimonta militare in quadri di intervento allargati (includendo quindi anche elementi del vicinato per far si che la presenza straniera non dia origine a reazioni di rigetto) in modo da consentire l’agibilità dei governi, abbinata ad azioni diplomatiche e di rimessa a posto del Paese assistito, nonché fondi per l’emergenza umanitaria. In questa inquadratura anche l’Europa ha i suoi doveri, per ragioni di prossimità, ha i suoi doveri: di fatto, in materia di sicurezza, la contiguità implica responsabilità, nel nostro caso la citata assistenza alla ricostruzione del Paese.

Prendere l’iniziativa conferisce sorta di sopravvento temporaneo che, se sfruttato pienamente, garantisce dividendi sia politici che di immagine. In questo contesto di violenti cambiamenti di portata storica che si stagliano nel Medio Oriente, solo la tenuta del quadro Stati Uniti-Russia, con eventuale diramazioni verso gli altri «duellanti», Arabia SauditaIran, può portare a un vero cambiamento, divenuto impellente vista anche la situazione umanitaria nei territori assediati.

Per ottenere questo risultato, e disperdere la sfiducia, è richiesta una leadershipsuper partes credibile in modo da ottenere sia il consenso che l’equilibrio tra le parti in causa, in particolare tra sunniti-sciiti. Gli Stati Uniti mantengono, nonostante tutto, i rapporti con Mosca (legata a doppio filo allo scomodo regime ancora al potere), e sono il partner indispensabile per tre ragioni: equilibrio tra le parti, potenziale militare e direzione strategica delle operazioni. Ma la fase di cooperazione del reset button con Hillary Clinton, allora titolare del Dipartimento di Stato, sembra proprio «exausted».

Ma, a differenza del passato, è oramai acclarato che gli incontri a margine di autorità religiose apicali gia effettuate o in calendario operino in sintonia con gli sforzi della diplomazia (21). Resta da vedere se delle negoziazioni sostenute ed eque siano in grado di disperdere la sfiducia esistente e di far passare il messaggio che il futuro della regione degli Stati distrutti dalla guerra è più importante degli interessi di parte che possono soltanto peggiorare la situazione attuale.

Purtroppo, nel piano politico militare, l’assenza di un’architettura di sicurezza si fa sentire in una Comunità Internazionale, non rivelatasi in grado di controllare, o quantomeno gestire serie crisi regionali e conflitti irregolari. In effetti, le sole tensioni presenti in Europa all’epoca della chiusura della Cortina di Ferro, portarono all’impianto di una architettura estesa anche a una vasta area, considerata come «Fianco Sud», e all’impianto di una apposita Organizzazione trasversale, che divenne l’Organizzazione per la Cooperazione e Sicurezza in Europa, OSCE, comprensiva di controllo degli armamenti nell’area.

Stupisce quindi che nel Medio Oriente, martoriato da conflitti, l’unica organizzazione trasversale del genere, Il Processo di Barcellona-Unione per il Mediterraneo (22), sia ancora in fase di congelamento, per il condizionamento della ripresa delle attività alla soluzione dell’oramai problema israelo-palestinese, sancita dall’ex presidente H. Mubarak alla vigilia di moti delle Primavere. Tra i vari deficit, essa non includeva attori di rilievo, divenuti, come detto, necessari come l’Arabia Saudita e l’Iran. Il principio della «indivisibilità della sicurezza», incastonato nell’Atto Finale di Helsinky del 1975, vale anche per il Medio Oriente. Occorre dunque una riflessione generale per l’area del Mediterraneo Allargato, a partire dal suo epicentro.

Come diceva il mitico F. Braudel, l’Italia si estende sull’Asse Meridiano del Grande Mare. Si può allora ripartire dall’Unione delle Capitali per il Mediterraneo, a suggello del rilancio del Progetto di Unione. Ho detto «per» il Mediterraneo e non «del» Mediterraneo. L’importante ora è che il Progetto di Unione retooled non ridiventi un’unione di grandi, ma sottodimensionati, progetti.

Come nel Medio Evo, se non più tutte, ma perlomeno molte delle strade, anche quelle della Diplomazia, portano a Roma e il MareNostrum potrebbe essere davvero unificato, partendo dal prolungamento di quell’asse fino a Tunisi. Quest’ultimo sarebbe un asse simbolico non solo sotto il profilo della Grande Storia, quella, come diceva Raymond Aron, «che si scrive con le lettere di sangue», da cui sinora abbiamo voluto fuggire. Peraltro, la citata policy dell’off-shore balancing, privilegia le alleanze all’abbisogna (non a caso definite shifting Alliances) come nel caso dei Curdi siriani, che creano non pochi problemi a chi deve pianificare le operazioni. Occorre dunque un intenso lavoro di trasformazione e adattamento (anche come modo di relazionarsi) al nuovo contesto.

Anche il quadro «5+5» del multilateralismo flessibile, potrebbe evoluire da una connotazione informale a una istituzionale a livello capi di Stato/Governo, sia per assumere ruoli da attore sub-regionale (23), sia, sul piano dell’orto-prassi per favorire sinergie tra i vari dossiers (24). Una riflessione in materia potrebbe considerare l’inclusione, all’occorrenza, di partner di peso. Se da un lato il dialogo tra parti che non si sono mai incontrate, serve a stemperare le tensioni, dall’altro il proliferare di formati ad hoc (del tipo «amici per la…») non consente la gestione uniforme di tutti i fattori concorrenti. Come diceva un padre fondatore della UE, Jean Monnet: «senza gli uomini non si può fare nulla, ma senza le strutture non c’é nulla di duraturo (25)». E, come detto, la prospettiva di peggioramento, ci porta a considerare, per dirla con F. Mitterand «le temps est venu d’agir».

Cosa fare?: 20 anni fa gli accordi di Dayton posero fine alla guerra in Yugoslavia. Potrebbe essere un riferimento? In quale quadro? In un certo senso, dopo Barcellona, occorre dare un segnale di discontinuità. Come per il Trattato di Roma che istituì la Comunità Europea, dando una direzione più precisa al processo europeo, vista la collocazione baricentrica, si potrebbe pensare a un Processo di Roma d’envergure per il Mediterraneo Allargato. Chi sa? Omen nomen, l’ipotesi non è poi peregrina, visto che, come dicono gli storici, il Mediterraneo costituì un’unica entità sotto Roma. Ma, di certo, occorre sforzarsi e affrettarsi acché le buone prospettive future (giacimenti di prodotti energetici nell’Egeo e nel bacino del Levante nonché il progetto cinese di ripristino della via della Seta) trovino condizioni a contorno favorevoli. Come ricorda H. Kissinger, «l’obiettivo della nostra era è quello di trovare un equilibrio, tenendo a freno i mastini della guerra» (26). Tradotto dal linguaggio felpato della Politica a quello «operativo» della Strategia, di cui quest’ultima è l’espressine dinamica, ciò comporta meno interesse di parte e più condivisione.

NOTE

(1) Vedi saggio autore, «Le Défi Meditérranéen»,Revue de Défense Nationale, June2010.
(2)Vedi saggio autore, «The Mediterranean Dilemma: containing or confronting ongoing conflicts», http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/OsservatorioStrategico/Documents/Osservatorio_Strategico_2015/Edizione_Speciale.
(3) «Quaderni del carcere», Edizione critica Istituto Gramsci a cura di Vincenzo Cerretana, Einaudi Torino 1975, Q3 pagg. 311.
(4)«The people we are fighting today, we funded 20 years ago». (14 Settembre 2014). http://educateinspirechange.org/alternative-news/created-terrorists-fundedhilary-clinton/.
(5)Vedi saggio autore, «Le 5+5 dix ans après Paris», Revue de Défense Nationale, T 583 Novembre 2014.
(6)Vedi saggio autore, «Le 5+5 dix ans après Paris», Revue de Défense Nationale, La Tribune n. 583, Novembre 2014.
(7) Libya Dawn, Libya Shield, galassia milizie di protezione (quelle dei pozzi sono stimate attorno alle 27.000 unità), dall’altra Ansar Al Sharia, Al Qaeda, e ovviamente la legione dei foreign fightersdi Daesh.
(8) Imperniata su tre direttrici: stabilizzazione, sicurezza contro movimenti terroristici, contrasto traffici esseri umani. L’ultima si correla con l’operazione Euronavfor Med Sophia.
(9)Www.telegraph.co.uk/news/worldnews/middleeast/syria/11124070/Who-is-in-the-anti-Islamic-State-coalition-and-what-they-are-contributing.html.
(10)Associated Press, Saudi Arabia creates Islamic bloc to fight terrorists, IHT December15-2015.
(11) Vedi saggio autore, La terza Guerra Mondiale a pezzi e la bagarremultipolare, Rivista Marittima, Luglio-Agosto 2015.
(12) Mark Duffeld, «Guerre post-moderne, l’aiuto umanitario come tecnica di controllo», Il Ponte, Milano 2013.
(13) Parole del Presidente B. Obama, le sue linee guida politiche iniziano con «contenimento», http://www.thedailybeast.com/articles/2015/11/13/  obama-forgetabout-destroying-isis-we-just-need-to-contain-them.htm.
(14) Vedi articolo autore e http://www.limesonline.com/per-sconfiggere-lo-stato-islamico-combattiamolo-in-libia/89617, 15 febbraio 2016.
(15)Foreign Affairs, Vol. 48, n. 2 (Jan1969), pag. 214.
(16)Fighting near and far, The Economist, November21st-2015.
(17) Mentre la Turchia teme un santuario curdo per il PKK nel proprio cortile, l’Iran, a sua volta, teme un fronte unito sunnita e l’Arabia Saudita ha sempre considerato l’Iran come la minaccia principale.
(18) UNSCR 2254 (2015), Definisce le tappe del processo di pace: soluzione politica con una nuova governance, Nuova Costituzione ed Elezioni entro 18 mesi, monitoraggio dell’ONU.
(19) «Azioni post-conflittuali di carattere prevalentemente diplomatico ed economico che rafforzano e ricostruiscono strutture governative e istituzioni in modo da prevenire la ricaduta nella situazione conflittuale». (Joint Pub.1-02 delle forze statunitensi).
(20) Nella sostanza il peace enforcementequivale a una sorta di condizione effettiva di guerra, inquadrata in un quadro giuridico se non proprio di pace, di conflitto armato.
(21) Il Santo Padre, che gode di un indiscusso credito morale e reputazione di honest broker, con i vertici di autorità Religiose (Primate della Chiesa Ortodossa Russa, Presidente Iraniano H. Rouani e Grande Iman di Al Azhar). Se il presidente Rouani, rafforzato dal voto popolare, appare desideroso, inter alia, di andare oltre l’economia oil-driven), i due cristiani condividono le preoccupazioni per le loro comunità, mentre il Grande Iman si è già pronunciato per una Riforma dell’insegnamento religioso, http://www.bbc.com/news/world-middle-east-31580130, 23 febb 2015.
(22)Vedasi saggi dell’Autore, «Notre Espace Maritime Commun», Revue de Défense Nationale, «Hors» serie maggio 2008, e «Le Défi Méditerranéen», RDN giugno 2010. Sfortunatamente, durante il suo sviluppo, l’UpM è stato declassato da progetto di Unione a Unione di Progetti.
(23) Per esempio nel Peace Keeping-stabilizzazione nel vicinato, grazie alla sua dote di intermediazione culturale, o nella Sorveglianza Marittima integrata con i dispositivi della UE.
(24) Vedi saggio autore The Mediterranean Puzzle, Tetide1/2015, http://www.centrostudimediterraneo.com/rivista. html.
(25) Uno dei padri fondatori della UE http://www.nytimes.com/2014/02/08/opinion/what-would-jean-monnet-have-done.html.
(26) Henry Kissinger, «World Order», Penguin Books, London, 2014, pag. 374.
(*) Ammiraglio di squadra in riserva, laureato in Scienze Marittime e navali, in Scienze delle Relazioni Internazionali presso l’Un iversità di Trieste, ha successivamente conseguito un master in strategia delle risorse nazionali presso la National Defense University di Washington DC e seguito corsi presso l’Institut des Hautes Etudes de Défense Nationale (IHEDN, Parigi) e l’ Africa Center for Strategic Studies (Washington DC). Si occupa di affari internazionali dal 1998, come assistente del Capo di SMD, e in seguito, assistente del Presidente del Comitato Militare della NATO. Opinionista e conferenziere su questioni relative alla sicurezza, collabora per diversi giornali e riviste a livello nazionale e internazionale (in francese e in inglese). Attualmente è titolare della cattedra di Politica Militare press o il Centro Alti Studi Difesa di Roma nonché conferenziere presso il NATO Defense College. Membro dell’Istituto Internazionale di Diritto Umanitario di Sanremo e collabora con la Rivista Marittima dal 1999.

 

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