Istituzioni per lo sviluppo [di Giorgio Macciotta]
La stagione politica che si chiude in Sardegna ha coinciso con il processo aperto, su scala nazionale, dalla legge di attuazione del Titolo V della II parte della Costituzione. La XIV legislatura si è, infatti, aperta nel marzo del 2009 e la legge di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione è entrata in vigore il 5 maggio 2009. Nelle discussioni del Consiglio Regionale e nelle iniziative della Giunta non c’è traccia di iniziative volte a definire il rapporto tra la Sardegna e questa fondamentale legge di attuazione Costituzionale. È prevalsa l’interpretazione riduttiva, e sbagliata, che la questione riguardasse solo marginalmente la Sardegna e le altre Regioni speciali. Una interpretazione nata da una frettolosa lettura dell’articolo 1 della legge 42/2009 che al 2° comma recita: “Alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano si applicano, in conformità con gli statuti, esclusivamente le disposizioni di cui agli articoli 15, 22 e 27.” L’art.15 riguarda il finanziamento delle città metropolitane (in Sardegna, potenzialmente, Cagliari), tema al quale si è sempre dedicata scarsa attenzione, tanto più dopo la sciagurata legge di istituzione delle 4 province regionali. Dalla previsione di una automatica applicazione dell’articolo 22 si è pensato discendesse, senza alcuna condizione, il diritto, per la Sardegna, alla “perequazione infrastrutturale”. Anche la delicata questione dell’applicazione dell’articolo 27, che pone il tema della partecipazione della Regione “al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà ed all’esercizio dei diritti e doveri da essi derivanti, nonché al patto di stabilità interno e all’assolvimento degli obblighi posti dall’ordinamento comunitari” è stata elusa. Discendendo, infatti, l’applicazione di tale norma dalla emanazione di “norme di attuazione dei rispettivi statuti, da definire, con le procedure previste dagli statuti medesimi”, si è ritenuto che fosse sufficiente non partecipare alla Commissione paritetica che, a norma di Statuto avrebbe dovuto varare le norme di attuazione per eludere i vincoli di maggior rigore che ne sarebbero potuti derivare per la Regione. Questo disinteresse è stato reso più semplice dal fatto che, per il primo anno, la Giunta Cappellacci ha potuto godere, in termini di risorse finanziarie, della positiva eredità della Giunta precedente. Il Presidente Soru aveva ottenuto, infatti, dal Governo Prodi una radicale modificazione dell’articolo 8 dello Statuto, con una normativa che, in prima applicazione, garantiva maggiori entrate pari a “482 milioni di euro per l’anno 2009”, proprio l’anno di insediamento della nuova Giunta. Ma i problemi sono iniziati negli anni immediatamente successivi: 1.per la scelta del Governo Berlusconi di non applicare la nuova normativa secondo la quale “la nuova compartecipazione della regione Sardegna al gettito erariale (sarebbe dovuta entrare) a regime dall’anno 2010”; 2. per la scelta del Presidente Cappellacci, malgrado l’indicazione unanime formulata in tal senso dal Consiglio regionale, di non ricorrere alla Corte Costituzionale, rivendicando la corretta applicazione di una normativa essenziale per i nuovi equilibri del bilancio regionale; 3.per l’illusione che, in presenza della ben nota crisi economico-finanziaria, la Regione potesse ricevere, al netto delle maggiori spese per sanità e trasporti, circa 2 miliardi di € di entrate aggiuntive senza fare, preliminarmente, i conti con le proprie inefficienze. Ma guasti ben più profondi di quelli determinati da un simile approccio di corto respiro sono derivati dalla scelta compiuta dalla Giunta di centro destra di strizzare l’occhio alle confuse pulsioni “indipendentiste e sovraniste” diffuse in Sardegna come risposta salvifica alla crisi che colpisce la nostra isola come il resto dell’Italia e del Mezzogiorno. Per comprendere la fragilità di simili impostazioni è bene richiamare, sia pur brevemente, i dati relativi alla concreta realtà dell’economia e della finanza pubblica in Sardegna.Incrociando dati ISTAT, per l’economia e l’occupazione, con dati forniti dal servizio dei Conti Pubblici Territoriali, per la finanza pubblica, è possibile constatare che: 1.Il PIL nominale pro capite cresce in Sardegna del 61,19% nella media dei 16 anni (1996-2011) con una dinamica più sostenuta rispetto a quella di tutte le altre regioni italiane (meno la Calabria che fa segnare una crescita del 65,35%) e nettamente superiore a quella media nazionale (55,02%) del Centro Nord (52,28%) e del Mezzogiorno (58,27%). Ma la dinamica pro capite, superiore a quella assoluta (+59,96%), evidenzia il fenomeno dell’emigrazione, comune a gran parte delle Regioni del Mezzogiorno. Nel periodo 1996-2011 la popolazione cresce in Italia del 4,49%, nel Centro Nord del 7,23% mentre in Sardegna si riduce dello 0,76%, più che nella media del Mezzogiorno, la cui popolazione decresce dello 0,32%. Se si considera che una quota crescente del PIL regionale è stata determinata non da produzione e lavoro ma da prestazioni assistenziali erogate per far fronte alla crisi industriale, di cui non si vede lo sbocco, si comprende come non ci sia prospettiva senza l’impostazione di uno straordinario programma di ridefinizione dell’asse produttivo. 2.In materia di prelievi fiscali e contributivi in valore assoluto la Sardegna si colloca, nella media del periodo, al 2° posto nel Mezzogiorno (7.492 € pro capite contro gli 8.518 dell’Abruzzo) malgrado la dinamica nel periodo sia relativamente contenuta (+63,23% contro il 64,82% dell’Abruzzo e il 73,18% della media meridionale). Il ritmo di crescita del prelievo fiscale in Sardegna è, comunque, nettamente superiore sia a quello media nazionale (+59,35%) che, soprattutto, a quello del Centro Nord (+53,6%). 3.Con un PIL pro capite inferiore, nella media del periodo, di oltre 25 punti a quello medio nazionale la Sardegna fa registrare un prelievo fiscale e contributivo pro capite, in rapporto al PIL, del 43,44%, solo di poco inferiore a quello medio nazionale (il 45,24%), superiore a quello medio meridionale (che è pari al 42,85%) e, anche, a quello di territori in condizioni economiche ben più floride come il Trentino (42,40%), il Veneto (43,28%), le Marche (43,08%). 4.Il livello della spesa primaria delle pubbliche amministrazioni in Sardegna (quella cioè al netto degli interessi sul debito pubblico) è, nella media dei 16 anni (1996-2011) pari a 10.506 € pro capite, superioro a quello medio nazionale (10.170), di poco inferiore a quello medio del Centro Nord (10.907), di gran lunga superiori a quello del Mezzogiorno (8.839) ed anche a quello del Molise che, con 9.976 €, è la seconda regione del Mezzogiorno. 5.Sempre nella media del periodo 1996-2011 la spesa pubblica nel territorio della regione ha superato del 40,23% le entrate riscosse sul territorio, mentre nella media meridionale il deficit è stato solo del 33,25% e esiste un surplus di entrate del 2,7% nella media nazionale e del 13,2% nella media del Centro Nord. Lasciamo perdere, allora, le pulsioni indipendentiste rendendo esplicito che nel caso tale strategia fosse praticata la Sardegna occorrerebbe accompagnarla con due possibile scelte entrambe impraticabili: ridurre del 40% spese e relativi servizi o accrescere, in percentuale analoga, la già elevata pressione fiscale. La Sardegna ha, dunque, bisogno della solidarietà nazionale e ne ha bisogno attraverso entrambe le due modalità previste dall’articolo 119 della Costituzione: 1.In primo luogo quella previste a norma del comma 3° di quell’articolo, finalizzata a consentire, ai “territori con minore capacità fiscale per abitante” di “finanziare integralmente le funzioni pubbliche … attribuite”, integrando, con i trasferimenti a carico di “un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione”, le risorse derivanti da tributi propri e “compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”. Si tratta del fondo le cui modalità di erogazione sono disciplinate dagli articoli 9 (fondo perequativo per le regioni) e 13 (fondo perequativo per gli enti locali) della legge 42/2009. 2.In secondo luogo la solidarietà prevista dal 5° comma del medesimo articolo 119 che prevede l’erogazione di “risorse aggiuntive … per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni”. Le modalità di ripartizione di tali risorse son regolate dall’articolo 16 della legge 42/2009. Ma entrambi l’erogazione di risorse a carico di questi fondi dipende da articoli della legge 42 del 2009 che si applicano nelle regioni speciali solo se, con la procedura delle norme di attuazione, si realizzerà anche in Sardegna, attraverso la definizione dei “costi standard”, il “graduale superamento del criterio della spesa storica”.“Costi standard” non vuol dire costi eguali ma costi determinati pesando la natura del territorio (pensiamo a cosa ciò vuol dire per i trasporti interni ed esterni all’isola), la densità della popolazione, la sua distribuzione per età e generi (pensiamo alla ricaduta di una simile valutazione per stimare i costi dell’istruzione e della sanità), e così via. Un lavoro di lunga lena che va promosso e gestito dalla Regione. D’altra parte solo la realizzazione dei costi standard ci consentirebbe di rivendicare l’adeguamento ai fabbisogni standard e di batterci per una valutazione del prelievo conforme alla Costituzione che, all’articolo 53 dispone che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.Realizzare i costi standard non è, però, una questione contabile. Si tratta, infatti, di compiere rilevanti scelte politiche per adeguare le strutture pubbliche alle esigenze dei cittadini e delle imprese, per fornir loro servizi di qualità sempre più elevata. La realizzazione dei costi standard non è solo la condizione per ottenere la solidarietà ma è anche l’occasione per ridefinire, in un fecondo rapporto con lo Stato, il nostro modo di essere dentro la globalizzazione e per impostare, in tale quadro di cerchi concentrici (il livello locale, quello regionale, quello statale e quello dell’Unione Europea) la ridefinizione del nostro modello produttivo. È, dunque, indispensabile compiere nella prossima legislatura scelte decisive. Occorre affrontare il tema della ridefinizione dei livelli istituzionali prendendo atto che la scelta sciagurata delle 8 Province è stata travolta dal referendum e che, se vogliamo evitare una ricentralizzazione, in capo alla Regione, della gran parte dei servizi è indispensabile stimolare i Comuni per gestire tali funzioni in modo associato. Insieme occorrerà prendere atto che la nuova disciplina di bilancio (nuovo articolo 81 della Costituzione, legge Costituzionale 1 del 2012, legge rinforzata 243/2012) prevede la riorganizzazione delle risorse, a tutti i livelli di governo, per missioni e programmi e richiede, di conseguenza, la riorganizzazione in tal senso degli uffici e del personale, superando duplicazioni di responsabilità e di competenze che complicano la vita dei cittadini e delle imprese. Si tratta delle precondizioni per rilanciare una politica di sviluppo. |