A proposito di Industria Agricoltura Ambiente [di Sergio Vacca]

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L’analisi della condizione economica e sociale della Sardegna, fatta nel tempo da autorevoli analisti economici, da Osservatori e da istituzioni come la Banca d’Italia, evidenza uno stato di perenne crisi.  Che non si riesce a mitigare neanche con interventi normativi, ai quali conseguono interventi di capitali, spesso rilevanti, ma talora inadeguati e intempestivi,  sempre comunque  dedicati a ridurre deficit di bilanci, spesso improbabili, di industrie decotte.  Rivelatesi, sin dall’inizio “dell’era industriale sarda”, inadeguate ad assicurare alla Sardegna un credibile sviluppo economico e sociale [S. Vacca e C. Rosnati, 2015, L’Ambiente. Nuova frontiera dello sviluppo economico. Problemi e prospettive; in Rapporto 2015 Caritas, Cagliari].

Lo stato di crisi dell’industria petrolchimica andrebbe assunto ad emblema dell’inadeguatezza delle risposte che lo Stato italiano e la Regione Sardegna hanno cercato di dare a quel malessere che fu autorevolmente interpretato ed evidenziato dalla Commissione Medici. In una sua recente intervista su L’Unione Sarda  [venerdì 11 marzo, Il Dibattito, Regione, pag. 7], Paolo Savona, economista, che fu ministro dell’Industria nel governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi e, attualmente,  membro autorevole della Fondazione Ugo La Malfa, dà un giudizio a tinte scure sull’economia della Sardegna.

L’edilizia “continua a girare a basso regime, gli investimenti registrano andamenti ancora negativi, il reddito pro capite dei sardi si è ridotto e la disoccupazione è cresciuta fino a raggiungere il doppio di quella italiana e il triplo di quella europea”. La crisi in Sardegna non è finita, anche se l’emorragia è stata fermata. Ma il suo giudizio è ancora più  impietoso quando sostiene che “In Sardegna è la fine del sogno industriale; è ora di cambiare pagina. Va ripensato un nuovo modello di sviluppo che, senza sacrificare le industrie che sono sopravvissute, punti sul turismo, l’agroindustria e l’artigianato, settori nei quali la Sardegna mostra una vocazione naturale”. Non è un caso – conclude Savona – che oltre il 60% delle imprese attive nell’Isola, in qualche modo già graviti su questo modello di sviluppo.

Per ripartire, insomma, la Sardegna deve imboccare una strada nuova che, però, non può prescindere dal consenso sia dei sindacati che dei lavoratori. Come accaduto negli anni Cinquanta con il piano di Rinascita della Sardegna; quanto è stato ottenuto con il consenso di coloro ai quali venivano richiesti sacrifici nel passaggio dal modello agropastorale a quello industriale, “oggi lo stesso consenso dovrebbe essere chiesto ai lavoratori delle imprese industriali prive di prospettive”, leggi  Alcoa, “per l’attuazione di nuovi programmi”, dice Savona. La Sardegna, in definitiva, deve ancora sopportare tempi duri, per questo motivo sono necessarie “scelte immediate”.

Nei quasi settant’anni  dell’autonomia regionale della Sardegna, la Programmazione economica non ha prodotto i risultati desiderati, proiettata, come è stata, nella promozione del sistema delle industrie di base. Sistema industriale, imperniato prevalentemente sulla petrolchimica e sulla metallurgia (alluminio), fortemente energivore, e quindi sull’uso di materie prime provenienti  dall’estero, che ha poi  rivelato l’incapacità di produrre lo sviluppo atteso. Innumerevoli sono state le analisi economiche e sociali e quindi anche politiche e le riflessioni degli intellettuali più attenti. Emilio Lussu – ne riporta il suo pensiero sulla Programmazione Francesco, Cicitu, Masala in una breve e  deliziosa Storia dell’acqua in Sardegna [1991]sosteneva che l’Autonomia è nata come cervo maschio con le corna.

Questa metafora lussiana – è sempre Francesco Masala che riporta – vuole significare che la “Programmazione” è stata fatta sì,  in buona fede, tuttavia, secondo una logica estranea alla vocazione dell’isola e con modelli estratti da altri contesti. “Ad esempio – sempre secondo Masala – il Centro regionale di Programmazione volle localizzare in Sardegna, cioè in una terra povera d’acque, due raffinerie, cioè due insaziabili divoratrici d’acqua. Fu così commesso un errore epocale, di cui in seguito avremmo dovuto pagare il fio. Alla monocultura petrolchimica – conclude Masala – in sede storica si può addebitare la catastrofe antropologica ed economica che ha divorato inesorabilmente enormi masse di investimenti pubblici, spesso inglobati nel privato”.

Quella di Cicitu Masala non è stata l’unica voce “in dissenso”, come, per altro verso, molte altre hanno espresso consensi anche entusiastici. Ma le perplessità vengono espresse anche in ambiti convegnistici, come il report  di carattere scientifico di Vera Zamagni, economista dell’Università di Bologna, ad un  convegno su “Società e industria in Italia negli anni sessanta e ottanta del novecento: i poli petrolchimici in Sardegna”, tenutosi ad Alghero nel 2004.

Interessante notare come, nell’esaminare in dettaglio il rapporto tra l’Istituto Mobiliare Italiano e la S.I.R di Rovelli riguardo a finanziamenti richiesti per implementare la produzione di etilene nell’impianto petrolchimico di Porto Torres, l’economista Zamagni, dopo aver citato le conclusioni non particolarmente favorevoli di un analista economico dell’Istituto, Emilio Papasogli,   concluda “Dunque forti erano le perplessità tecniche sui progetti di Rovelli. Ciò fa emergere ancora di più il fatto che la volontà di mandare avanti le iniziative sarde di Rovelli era politica”. Quella Programmazione di cui parlava ironicamente  Francesco Masala?

Una voce sicuramente obiettiva – per l’autorevolezza dell’Istituto – è quella della Banca d’Italia, che nel suo rapporto annuale, 2015, che riferisce delle condizioni dell’economia regionale del 2014. Viene rilevata la sostanziale fragilità economica del sistema industriale dell’isola, evidenziando tuttavia un leggero miglioramento della congiuntura.  Emerge  una indicazione positiva riguardante una sola  filiera del comparto industriale: “Il saldo tra la quota delle imprese che indicano una crescita della produzione e degli ordini e la frazione di quelle che segnalano una diminuzione è migliorato rispetto al 2013, attestandosi nella media dell’anno su valori positivi. Su questa dinamica incidono, tuttavia, soprattutto le indicazioni di rafforzamento espresse dalle imprese del settore agroalimentare; al netto di questo comparto i giudizi degli operatori indicherebbero un sostanziale ristagno dell’attività industriale.  È proseguita la dinamica espansiva del settore agroalimentare –  continua Bankitalia –  in atto da oltre tre anni. Le imprese del comparto hanno accresciuto i propri fatturati beneficiando della sostenuta domanda internazionale, alla quale si è aggiunto un rafforzamento di quella proveniente dall’interno, e dell’evoluzione positiva dei prezzi di vendita”.

Per contro – sempre secondo Bankitalia –  “la debolezza dei ritmi produttivi del comparto metallurgico è continuata anche nel 2014: il fatturato delle imprese del settore si è ridotto, mentre le condizioni di redditività sono rimaste compresse dalla riduzione dei prezzi di mercato e dai costi elevati sostenuti per l’approvvigionamento energetico  … In base alle informazioni raccolte presso le associazioni di categoria l’attività dell’industria chimica regionale è rimasta stabile nel 2014, dopo la dinamica deludente osservata negli anni precedenti. Sulle prospettive di sviluppo del settore in regione potrebbe incidere l’avvio di un recente piano di investimenti nell’area industriale di Porto Torres finalizzato alla lavorazione di biomasse”.

I fatti però smentiscono le previsioni, peraltro prudenziali, della Banca d’Italia.  E’ infatti notizia del 6 novembre 2015 il disimpegno dell’ENI dai cosiddetti progetti di “chimica verde”. Titoli su l’Unione Sarda, sulla Nuova Sardegna e  su tutti i media regionali: “ENI lascia la chimica verde. Dubbi su Porto Torres”. E in dettaglio, l’Unione Sarda, “Eni, con il nuovo piano di riassetto, abbandona la chimica verde e la relega a fanalino di coda dell’Europa. Ancora una volta – si legge nel documento dei sindacati dei Chimici CGIL, CISL e UIL – ci troviamo di fronte ad un’occasione perduta…”.

Che il sistema industriale sardo fondato sulla chimica di base – come peraltro il comparto metallurgico – avesse i “piedi d’argilla” lo evidenzia un documento  comparso sul Messaggero nel 1978. Riporta, impianto per impianto (Porto Torres, Cagliari Macchiareddu, Sarrok, Ottana, Villacidro),  il numero di addetti ed i cassintegrati o licenziati, in totale: 17220 addetti, 5221 cassintegrati o licenziati, dato, quest’ultimo, che rappresenta  poco meno del 30% della forza lavoro di un sistema industriale appena consolidato. Ma già in forte crisi.

Scrive ancora Cicitu Masala, per niente fiducioso sulla politica programmatoria della Regione Sardegna, alla quale dà tuttavia atto che aveva deciso di elaborare il Piano Generale delle Acque, con la volontà – di riscattare gli errori della passata programmazione e di ricominciare la lunga strada della rinascita proprio dall’acqua, la francescana Sorella Acqua, molto utile et umile et preziosa et casta, il “principio primo”,  secondo un antico filosofo greco,  di tutte le cose.

Vi è anche un altro aspetto connesso alle deficienze della Programmazione. Tutt’altro che secondario, in quanto riguarda lo sviluppo della conoscenza. E’ un richiamo alla cultura ed alla sua promozione che viene dalla Commissione Parlamentare di inchiesta sul banditismo in Sardegna [1972], meglio conosciuta come Commissione Medici. Nell’esaminare le condizioni a base del grave disagio sociale delle zone interne dell’isola, la Commissione individua lo stato economico, ma anche il deficit culturale.

Afferma infatti che “…La presenza in Sardegna di un patrimonio di antiche tradizioni richiede che l’Università possa scientificamente interpretarlo, prima che vada disperso … E’ compito della Regione rivendicare a se il diritto di amministrare la Scuola in Sardegna e di forgiarla, adattarla al tipo di società nella quale essa vive, respingendo la caratteristica uniformità di una Scuola nazionale, non corrispondente alle esigenze culturali e formative della Sardegna.”.

Solo dopo venti anni da quel richiamo, la Regione, con il concorso dello Stato, decise di realizzare a Nuoro una sede universitaria, gemmata dalle Università di Cagliari e Sassari. Peraltro, la grave crisi delle zone interne, certamente non risolta con la creazione del polo petrolchimico di Ottana, porta, nella ricerca di soluzioni idonee al superamento della stessa, a riconsiderare questi concetti, ancora molto attuali anche se fino ad oggi inspiegabilmente del tutto disattesi. Come già detto in altre circostanze, le zone interne del nuorese esprimono caratteristiche ambientali e storiche tali da prospettare una formazione accademica che vada ben oltre lo stereotipo educativo attribuito alle sedi gemmate.

Vi è un altro possibile modello economico?  Si può agevolmente considerare che il modello economico perseguito dalla Programmazione regionale, ovvero – secondo le conclusioni di Vera Zamagni –  dalla Politica nazionale, non ha prodotto lo sviluppo atteso. Se non ha funzionato un sistema industriale basato sulla trasformazione di materie prime importate, come il petrolio per la produzione di derivati chimici o come le bauxiti per la produzione di alluminio e se non è più economicamente  produttiva l’estrazione dal sottosuolo sardo dei minerali primari e la loro trasformazione, occorre – in tutta evidenza – ripensare al modello economico in atto ed alla sua sostituzione con un modello basato sull’utilizzo razionale delle risorse dell’isola.

Certamente l’acqua, la francescana Sorella Acqua, molto utile et umile et preziosa et casta, il “principio primo”,  secondo un antico filosofo greco,  di tutte le cose, come afferma Masala, e il suolo.

L’uso possibile delle due risorse va  affrontato soprattutto in termini di problematicità. Per quel che riguarda l’acqua, il rapporto con  i mutamenti climatici ed i problemi di disponibilità; per quanto attiene al suolo, la potenzialità della risorsa, ma anche le  condizioni di degrado attuale o potenziale. Questo non significa dire NO, tout court, a qualsiasi forma di industrializzazione. L’agro-industria, come autorevolmente certificato dalla Banca d’Italia nel suo rapporto  di metà anno e confermato nella recente conferenza di Macomer [12 novembre 2015]  rappresenta oggi la punta più avanzata della realtà industriale dell’isola. Che trasforma i prodotti agricoli sardi con straordinarie eccellenze riconosciute dai mercati di gran parte del mondo. E’ appena il caso di ricordare i successi dei vini sardi, anche in termini di palmares nelle rispettive classifiche.

Le “industrie” sulle quali puntare sono quindi l’Ambiente e l’Agricoltura, che, coniugate in un nuovo modello di sviluppo, porteranno al seguito anche un Turismo più consapevole e certamente più colto. Destagionalizzato, in quanto non basato esclusivamente sul mare e quindi ridotto a pochi mesi.

Agricoltura, quindi, per cambiare radicalmente – riportando  una frase di Carlo Petrini [Perché  l’agricoltura incide sul clima; La Repubblica, venerdì 27 novembre 2015, pag. 40] – paradigma economico, sociale, culturale e promuovere un’agricoltura basata su pratiche agro-ecologiche e un sistema diverso di produzione, anche nell’ottica di affrontare concretamente il problema dei mutamenti climatici”.

In conclusione, l’osservazione dalla quale – riteniamo – occorra partire riguarda l’industria “pesante”, petrolchimica e metallurgica di base: quanto è costata alle finanze pubbliche “l’avventura industriale sarda”; quali ricadute positive in termini di sviluppo economico e sociale ha prodotto; ma soprattutto, quanto costa continuare a mantenerla in vita; quali impatti ha determinato nell’ambiente.

Crediamo sia emblematico di questa situazione riflettere sul ruolo che la raffineria di Sarrok, del gruppo Moratti, ha sull’economia globale della Sardegna. Col suo fatturato contribuisce certamente ad innalzare il PIL dell’isola, ma, al di là degli stipendi, quanto rimane al sistema economico sardo, posto che le tasse sui profitti non sono pagate in Sardegna? Risultato di questa situazione è che la Sardegna non fa più parte dell’Obiettivo 1 dell’UE, perdendo quindi rilevanti possibilità d’accesso ai fondi comunitari di quel settore.

Il numero degli occupati nella “industria pesante” è drasticamente calato e gli impieghi di personale, ormai, sono solo dell’ordine delle centinaia, con l’indotto poche migliaia. Dove è quindi lo sviluppo economico e sociale fortemente propagandato e voluto – si vedano le amare conclusioni dell’economista Zamagni sul ruolo di certa politica – come risolutore della condizione di arretratezza e grave crisi del secondo dopoguerra?

Non crediamo sia necessario fare studi approfonditi, né profonde riflessione per concludere che l’avventura della “industria pesante” della Sardegna sia finita per sempre. Come, peraltro, autorevolmente sostenuto dall’economista Savona. In realtà – e questo andrebbe sottolineato in una auspicabile inchiesta parlamentare – l’avventura della “industria pesante” sarda è nata morta. Sono, state, infatti, localizzate nell’isola industrie che l’Europa aveva già dismesso o si apprestava a dismettere per l’alto costo ambientale, sociale ed economico, che il loro mantenimento in vita comportava già negli anni 60 del secolo scorso.

Questo – lo ribadiamo – non significa dire NO, tout court, a qualsiasi forma di industrializzazione. L’agro-industria rappresenta oggi la punta più avanzata della realtà industriale dell’isola. Che trasforma i prodotti agricoli sardi con straordinarie eccellenze riconosciute dai mercati di gran parte del mondo. Le industrie sulle quali puntare sono quindi l’Ambiente, l’Agricoltura ed il Turismo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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